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Ukhta, il fiume del petrolio

di Gigi Donelli

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9 febbraio 2009

Che nei pressi del fiume Ukhta il petrolio sgorgasse spontanemente dal terreno paludoso, lo raccontavano già nel XVII secolo gli indigeni samoiedi dell'estremità nord-orientale della Russia. I documenti conservati nella biblioteca nazionale di San Pietroburgo registrano persino un primo impianto di filtratura dei fanghi per la produzione di olio da lampada, aperto nel villaggio di Chibyu, lungo il fiume Ukhta, già nel 1745. Avamposto dei cacciatori russi di pellicce, immerse nella solitudine di una regione grande quanto la Francia ma priva di una vera città, le paludi di petrolio sarebbero rimaste solamente una curiosità geologica ancora per molto tempo. Distanti mille miglia da Mosca e protette da immensi acquitrini, le paludi erano considerate quanto di più inospitale persino per lo spartano standard russo.

Mikhail Sidorov, il Jr degli Urali
Il primo a investire fortuna e vita in quella che oggi è la Repubblica dei Komi fu il JR degli Urali, Mikhail Konstantinovich Sidorov. Imprenditore visionario con il pallino delle materie prime, si era lasciato alle spalle l'agio di Arckhangelsk dov'era cresciuto in una famiglia di mercanti. Nel 1852, non ancora trentenne, fu il primo a spingersi nel grande nord per trivellare la foresta in cerca di petrolio e altri minerali preziosi. Nonostante il successo del suo progetto, la prima fiammata della storia petrolifera russa si spense presto. Sidorov, era sempre più interessato a svelare l'impossibile trama del sistema fluviale alimentato dagli Urali e, proprio come il suo contemporaneo scozzese in Africa David Livingstone, non aveva altri mezzi se non quello di compiere o finanziare lunghissime spedizioni che lo conducevano inevitabilmente al desolato Oceano Artico. Quando morì, nel 1887, Sidorov era ormai in bolletta, colmo solamente della gratitudine dei molti esploratori che aveva sostenuto.

Photogallery - Ukhta, da villaggio a capitale del petrolio. Nel nome di Stalin

Braccia coloniali cercasi
Ciò che i pionieri russi dell'energia come Mickhail Sidorov e Oskar Dikson avevano sofferto di più, fino a veder soffocare i loro grandiosi progetti di colonizzazione, era stata la cronica mancanza di braccia. La taiga era spopolata, priva di strade e collegata al mondo esterno solamente da fiumi navigabili 6 mesi l'anno. I progetti di trasformazione, quelli che dovevano fornire le infrastrutture di base per sviluppare economicamente la regione, si erano sempre infranti contro l'assenza di uomini disponibili a realizzarli. Persino gli indigeni, che negli stessi anni e ad altre latitudini erano costretti in schiavitù dalle potenze europee, erano del tutto "inutilizzabili". Come gli eschimesi in Canada, gli indigeni allevatori di renne erano troppo fragili, troppo distanti culturalmente dai russi, erano troppo poco numerosi e, spesso, erano anche agli unici ad assicurare la sussistenza delle piccole colonie commerciali russe con le loro attività legate alla caccia e l'allevamento. La soluzione andava cercata nel trasferimento forzato delle popolazioni. Agli albori del XX secolo la polizia zarista rastrellava "candidati" tra i sotto-proletari di Mosca e San Pietroburgo, ma i numeri erano ancora bassi e per cambiare le cose ci sarebbe voluto un uomo capace di dare al sistema una vera e propria scala industriale.

La ferrovia per Vorkuta
L'uomo che cambiò definitivamente le cose conosceva la taiga. Aveva capito sulla sua pelle perché a Mosca quel nome – Siberia – era sempre stato più una minaccia che un luogo fisico. Per due volte, da ragazzo, vi era stato mandato al confino. Per quasi 4 anni – a partire dal 1904 – il georgiano Vissarion Dzugasvili era stato prigioniero di Kureika, un villaggio sperduto , raggiungibile solo d'estate lungo il corso dello Yenissei. Aveva respirato la grande solitudine del nord, e quando fu in grado di agire, non ebbe dubbi. Per assicurarsi l'oro, il petrolio e il carbone del nord era necessario dare al regime una forza lavoro praticamente illimitata. Se è vero che il prototipo di lager sovietico viene considerato l'ex monastero di San Michele alle Isole Solovky (Mar Bianco), la cui paternità ideologica ricade su Lenin, fu senz'altro Stalin a industrializzare il sitena dei campi di lavoro che avrebbe trasformato per sempre quella parte del paese. Fu lui a decidere che nell'arco di pochi anni, le materie prime dell'estreno nord avrebbero i maggiori centri industriali russi lungo la via ferrata.

Operai e schiavi
La trasformazione della neonata Repubblica Autonoma Sovietica dei Komi (fondata nel 1921) è legata al piano quinquennale 1928-32 e poi alimentata per tutti gli anni '30 dalle purghe staliniane. Già nel 1929 Mosca ordinò la costruzione in una terra vergine, della prima strada carrozzabile (oggi la strada Siktivkar-Ukhta) . Tagliando la regione da sud-ovest a nord-est risalendo parallela per quasi mille chilometri alla linea di costa artica, doveva collegare Syvtikar, Ukhta, Pechora fino agli enormi campi carboniferi scavati ai piedi degli Urali nella zona di Vorkuta. 40mila prigionieri solamente nei primi due anni. Senza macchine da lavoro e in condizioni climatiche durissime avanzarono come formiche incatenate attraverso una terra praticamente spopolata (vd Photogallery). Nel 1931 veniva completato il primo tratto di strada (330 km. tra Sivtykare e Ukhta). Intorno a quei cantieri tra foreste e paludi cresceva così il sistema concentrazionario dei gulag raccontato tra gli altri da Aleksandr Solzhenitsyn e Varlaam Salamov. La strada - affiancata dalla via ferrata - si spinse per anni in direzione nord-est, lasciando dietro sé un sistema ramificato di campi di lavoro che avrebbe inghiottito milioni di uomini e di donne. A Ukhta, l'antica Chibiu diventata già nel 1935 la capitale del petrolio settentrionale, la produzione risultò fin dal primo anno conforme al piano stabilito del Cremlino. Era un falso, ma Stalin aveva detto 100mila tonnellate il primo anno, e non era il caso di contraddirlo.

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