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Ma da che parte è caduto il Muro?

di Mario Margiocco

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11 settembre 2009

Niente a New York è come otto anni fa. Il sindaco ha piazzato le seggiole su Broadway giù fino a Times Square trasformando il centro del mondo in una paciosa piazza di paese. Sulla vecchia ferrovia sopraelevata High Line, che serviva dal 1934 i 250 mattatoi urbani, c'è un giardino pensile che ingentilisce le putrelle del secolo di ferro, il Novecento, con i fiori selvatici e l'erba aromatica di un XXI secolo appena sbocciato. I taxi si pagano quasi solo con la carta di credito, il drin drin di un carillon e la mancia è saldata, occhio però che siamo nel dopo crisi e se sforate anche di pochi centesimi il vostro conto, la banca vi piazza 34 dollari di multa, un tassì, un cinema e un caffè fuori budget cento euro.

I ragazzi portano dei curiosi pinocchietti al polpaccio, anche sul lavoro, le ragazze sfidano il fresco settembre con pantaloncini da spiaggia. Le scuole sono riaperte e Obama, che ha assunto il ruolo di predicatore nazionale, parla agli studenti da preside democratico, dateci dentro che son tempi duri. Gli scolari dell'asilo e della prima elementare non erano nati l'11 settembre del 2001, quando i commandos di al Qaeda, secondo la strategia salafita di Osama bin Laden, colpirono e distrussero le Twin Towers a Manhattan, danneggiarono il Pentagono a Washington e invano provarono a colpire la Casa Bianca, o il Congresso, con un aereo abbattutosi poi in Pennsylvania.

Il mondo è così cambiato che i ragazzini delle scuole, accompagnati da mamma e papà commossi, quando toccherà loro studiarlo al liceo resteranno sbalorditi. La breve solidarietà svanì presto, nelle rigidità ideologiche dei falchi intellettuali di Bush e del suo vice, il duro Cheney, sporcata dalla difesa della tortura del giurista John Yoo e degenerata poi nel carcere di Abu Ghraib. Ma con che fretta si sono smarrite la posticce supremazie morali contro gli yankee, Chirac sostituito da Sarkozy l'Américaine, il cancelliere Schröder ridotto a lobbista per il petrolio russo di Putin, i cinesi intenti a sostenere dittatori dalla Birmania al Sudan, le Nazioni Unite paralizzate dalla burocrazia di Ban Ki Moon e con antisemiti, oppressori e tiranni a spartirsi poltrone.

Oggi, intorno alle 8 e 40 ora locale, capannelli di passanti si fermeranno a ricordare i caduti, civili, militari, poliziotti e pompieri e le guerre che da quella strage son venute, in Afghanistan prima e Iraq poi con i loro morti, americani, alleati, iracheni e delle varie tribù afghane. Si prega nelle chiese, nelle sinagoghe e nelle moschee. Si prega nelle scuole e ieri la professoressa Zawerucha raccontava a un giornale che nelle sue aule di Brooklyn ci sono 325 studenti nati in 50 paesi diversi, Polonia, Yemen, Spagna, Albania, Pakistan, Cina, Azerbaijan.

Osama voleva battere non gli Stati Uniti ma la globalizzazione, un mondo tollerante dove fedi e culture possano coesistere nello scambio economico, come aveva previsto il saggio scozzese Adam Smith. Che gli americani infedeli gestissero la propria società a piacimento era, ed è, per lui ok, come ha scritto nel suoi manifesti. L'attacco orrendo di otto anni fa serviva a intimidire il nemico, persuaderlo a ritirarsi nei propri confini e lasciare la regola della sharia imporsi nell'area dell'antico Califfato.
Era la stessa strategia dei giapponesi a Pearl Harbor, non battere gli americani che sapevano troppo più forti, convincerli a lasciare il Pacifico all'impero del Sol Levante.

È passato Bush con la sua guerra al terrorismo, il presidente Barack Obama è stato accolto ovunque con sollievo e simpatia. Ma se l'Iraq è meno prima linea grazie alla strategia del generale Petraeus, clonata su quella vincente degli inglesi in Malesia dal 1948 al 1960 e dei boliviani e Cia contro il Che Guevara nel 1967, l'Afghanistan è guerra di lunga durata. I militari sanno che le tribù talebane non si possono tutte battere e occorre vincere sulle irriducibili e accordarsi con le moderate. La paura dello studioso di Harvard, Graham Allison, è che il prossimo attacco di al Qaeda sia nucleare, magari con materiale «sporco» contrabbandato dal Pakistan. E viene da tremare: se negli Usa tanto forte è stato il contraccolpo dell'11 settembre, come reagirebbe una qualunque delle nostre democrazie a un attacco nucleare? Il dodici settembre 2001 all'accademia militare di West Point una delle più raziocinanti docenti ammoniva i cadetti con un grafico sulla lavagna: più sicurezza implica meno libertà.
Di questi timori New York oggi non dà segno. È il discorso del giovane presidente sulla riforma sanitaria a tenere banco, ce la farà a persuadere i repubblicani senza perdere i voti dei suoi? La sua magnifica retorica sarà pareggiata da un'abilità politica in Congresso? O si ridurrà come il fallito Carter del 1980, buone intenzioni fiaccate da goffe mosse cerebrali e distrutte dalla rivoluzione sciita in Iran? E arriverà un Reagan a tirare il paese fuori dalla «malattia» della depressione? I suoi nemici son persuasi di sì, il presidente e i suoi alleati pronti a battersi per la rielezione. Vogliono vincere sulla sanità, passare indenni le elezioni di midterm del 2010 e raddoppiare la Casa Bianca nel 2012.

  CONTINUA ...»

11 settembre 2009
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