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Le vite parallele di Barack e Nicolas

di Giuliano Da Empoli

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18 gennaio 2009


A due giorni dall'insediamento di Obama, Nicolas Sarkozy ha dato il benvenuto alla sua maniera al nuovo presidente degli Stati Uniti. Convocati all'Eliseo i rappresentanti del corpo diplomatico straniero, li ha intrattenuti per un'ora sulle grandi sfide che attendono la prossima amministrazione. Crisi finanziaria, conflitto israelo-palestinese, riforma dei meccanismi di governance globale: su tutti questi temi, il presidente francese si è detto ansioso di mettersi all'opera con il suo omologo americano. «Forse mi troverete troppo ambizioso», ha detto sorridendo ai diplomatici. Ma quelli non hanno battuto ciglio: conoscendo il personaggio, era difficile immaginare che Sarkozy non si ponesse nel ruolo di interlocutore naturale del nuovo inquilino della Casa Bianca.
A legittimare questa ambizione ci sono i successi del recente semestre di presidenza francese dell'Unione europea e l'appannamento degli altri leader continentali. Ma c'è anche, insospettabile, un filo rosso che lega da sempre i due capi di Stato.
A prima vista, il contrasto tra Sarkozy e Obama non potrebbe essere più marcato. Il diavolo e l'acquasanta, il bianco e il nero, il nano e il gigante, la destra e la sinistra. Eppure, a guardare un po' più da vicino, hanno molte cose in comune, le due rockstar della politica mondiale. Primo: l'origine multietnica. Esplicita, quella di Obama. Più discreta, quella di Sarkozy, il cui padre era ungherese e il cui nonno materno era un ebreo sefardita di Salonicco. È normale che sia così: gli Stati Uniti hanno fatto una bandiera della loro capacità di integrazione. L'Europa, invece, integra di nascosto, senza dirlo, cercando di fare in modo che nessuno se ne accorga.
Seconda analogia. Sia il presidente eletto che il presidente francese sono dei triangolatori. Anziché starsene buoni nel loro campo, preferiscono sconfinare sul terreno dell'avversario. Di Sarkozy si sapeva. In campagna elettorale si è appropriato di Jaurès e di Léon Blum, icone della storia socialista. Una volta al potere, si è circondato di ex-socialisti, dal ministro degli Esteri Bernard Kouchner al supertecnocrate Jacques Attali. Obama, a suo modo, ha fatto lo stesso. In campagna elettorale, ha fatto inferocire i netroots - gli attivisti online più radicali - con le sue posizioni conservatrici su privacy, porto d'armi e pena di morte. Durante i giorni dell'interminabile transizione, poi, ha moltiplicato i segnali bipartisan, dalla designazione del pastore conservatore Rick Warren per la cerimonia d'insediamento alla conferma del segretario alla Difesa di George Bush.
Terzo punto in comune: l'Actor's Studio. Prima di quella scuola mitica, gli attori recitavano a soggetto. Si attenevano a un copione prestabilito e tanto bastava. Poi è arrivato Marlon Brando ed è cambiato tutto. Non si trattava più di recitare: si trattava di vivere. Glamobama e Starkozy non sono più uomini politici, sono seguaci di Lee Strasberg che hanno trasformato la loro vita in una performance. Michelle e Carlà, il jogging e l'I-Pod, Johnnie Halliday e Oprah Winfrey non sono più elementi di contorno: sono il cuore stesso della strategia dei due gemelli diversi.
In Europa come negli Usa, non c'è più differenza tra Inside Story e Meet the Press, né tra Paris Match e Le Nouvel Observateur: tutti i media sono impegnati nello sforzo di soddisfare l'inesauribile fame di intimità e di glamour che percorre la nostra società e non risparmia nessuno, dalla casalinga del Nord Pas de Calais al consulente di Wall Street. Ecco perché sia Obama che Sarkozy, più che un programma, presentano al pubblico una personalità, dalla quale deriva quasi naturalmente tutto il resto. Sarkozy ha basato la sua politica sulla sua principale caratteristica personale: la frenesia. Agli elettori ha promesso un lavoro indefesso per rivoltare come un calzino la Douce France. Obama, invece, è l'incarnazione stessa del sogno americano e del desiderio di unità che si sente crescere oltreoceano dopo gli anni del muro contro muro.
Con tutte queste cose in comune, non c'è da stupirsi che in campagna elettorale Obama sia andato a trovare Sarkozy all'Eliseo, ignorando i socialisti transalpini, suoi interlocutori naturali. All'epoca, il presidente francese ricambiò dichiarando a Le Figaro: «Obama, c'est mon copain» (Obama è un vecchio amico). La verità è che i due vivono le stesse ansie e corrono gli stessi rischi. Essendo usciti dalla dimensione della politica per entrare in quella della moda e dell'entertainment, entrambi devono confrontarsi con cicli di popolarità molto più intensi e frequenti. Lo show-business richiede, per sua definizione, continui colpi di scena. Per questo, all'incontenibile ascesa di Sarkozy ha fatto riscontro la sua altrettanto brutale caduta durante i primi mesi al potere. Ora, con il simbolo della liberazione di Ingrid Betancourt, al quale sono seguite le più sostanziose riforme delle istituzioni e degli orari di lavoro, i successi in politica estera e il rimpasto ministeriale di giovedì scorso, Sarkozy sta rapidamente risalendo la china. Obama, invece, deve ancora fare l'esperienza catartica della crisi. Con tutto il loro entusiasmo, si capisce benissimo che i media non aspettano altro. Lui, chiaramente, punta a rinviarla il più possibile. Ma il momento della verità, ormai, è alle porte.

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