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Obama e l'agenda cambiata in corsa

di Silvio Fagiolo

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18 gennaio 2009
Barack Obama. Justin Sullivan/Getty Images/AFP


Il mandato di Barack Obama è un viaggio verso l'ignoto come poche volte in passato. Del resto Thomas Jefferson aveva paragonato l'esercizio del potere presidenziale alla spedizione degli Argonauti. Gli eventi hanno cambiato l'agenda che Obama aveva riassunto il 4 novembre: «Una crisi economica, due guerre irrisolte, un pianeta a rischio».
Le correzioni di rotta si stanno moltiplicando, nella politica interna come in quella estera, prima ancora che il nuovo presidente abbia varcato la soglia della Casa Bianca. La crisi economica ha da ultimo assunto la drammaticità dei due cataclismi che offrirono a Roosevelt quattro mandati presidenziali. È in gioco lo stesso modello del capitalismo americano. Tutto peggiorerà prima di cominciare a migliorare, in uno scenario di emergenza assoluta. Assumerà un'importanza drammatica l'orizzonte altrimenti retorico dei cento giorni. Enorme è il capitale di fiducia che Obama ha raccolto. Altrettanto rapida potrebbe essere la sua evaporazione in assenza di risultati immediati. Dietro i numeri e i grafici che scandiscono il disastro ci sono persone e destini. L'intervento richiesto da Obama si colloca appena sotto la soglia politicamente critica di mille miliardi di dollari. Ma gli eventi più recenti già lo rivelano insufficiente. I salvataggi della grande industria automobilistica hanno scosso il principio di responsabiltà su cui si basa l'economia di mercato, ma non è detto che serviranno ad arrestare la caduta o solo a rallentarla. Il debito potrebbe essere il più grande mutamento ideologico di questo scorcio di secolo, come lo erano stati l'anticomunismo negli anni 50 e i diritti civili nel decennio successivo. Si renderà allora indispensabile una mobilitazione costante dell'opinione pubblica, attraverso quel linguaggio franco e semplice ma non scevro da passioni che rende percepibile il "realismo magico" di Obama.
Il primato della crisi ha già messo nell'ombra altri capitoli di un'agenda ambiziosa. Guantanamo resta certo un simbolo di impunità, un'allarmante negazione del diritto, della verità e della giustizia. «Terra di nessuno dalla quale arrivano immagini di prigionieri senza volto». Ma già Obama aveva detto, poi smentendosi, che la sua chiusura non sarebbe stata immediata. E comunque il superamento della sindrome della paura, dello squilibrio tra sicurezza e libertà che aveva portato alla sospensione di alcuni diritti, recede rispetto all'esigenza più immediata di rimettere in moto il sistema produttivo.
Ma anche propositi redistributivi e piani di ammodernamento dovranno forse segnare il passo dinanzi al debito conseguente a vertiginosi salvataggi. Un nuovo esempio, come già con Bush, di squilibrio tra vantaggi presenti e oneri futuri. Nixon aveva staccato la classe lavoratrice bianca dai democratici, sfruttandone il disagio nei confronti dei diritti dei neri, la protesta contro la controcultura del 1968, l'evoluzione individualistica e libertaria. I democratici con l'elezione di Obama sono tornati ad essere il partito dei lavoratori e dei sindacati. Ma la competitività internazionale acuita dalla crisi non permetterà di largheggiare nelle retribuzioni, di capovolgere la tendenza a una crescita della disuguaglianza. Dalla sanità alle pensioni, molti impegni andranno ridimensionati alla luce della ridotta disponibilità di risorse.
L'ascesa di alcuni Paesi è stata in buona misura conseguenza del prezzo del petrolio. Aveva alimentato gli sbilanci colossali, i giganteschi flussi di risparmio tra formiche e cicale nell'economia globale. Aveva fatto dei Paesi produttori i protagonisti del mercato degli investimenti. La caduta del prezzo delle materie prime ed energetiche si configura come un'ulteriore incognita. La gestione della crisi diviene sempre meno nazionale. Rimanda alle raccomandazioni del G-20 riunitosi a Washington a metà novembre sulla libertà degli scambi e sulle regole comuni contro ogni tentazione protezionistica.
L'agenda internazionale di Obama subisce un vero e proprio rovesciamento. Prioritario non appare più il cerchio esterno del Medio Oriente, con le due guerre aperte, le ambizioni nucleari iraniane, che pure restano sullo sfondo come la minaccia più grave. Torna al centro il più intrattabile dei conflitti, la nuova guerra tra israeliani e palestinesi. Da qui Obama potrebbe ripartire per una politica estera di grande profilo. Forse sarebbe stato possibile indebolire Hamas attraverso quel negoziato con Teheran che Obama non esclude. Forse sarà possibile restituire il Governo di tutti i territori alla componente moderata dei palestinesi, che ha tenuto nei giorni del conflitto un comportamento responsabile. Tuttavia la moderazione non è stata mai remunerata a sufficienza dagli israeliani. Le restrizioni ai movimenti di cose e persone sono restate, gli insediamenti non sono stati interrotti. Obama potrà rilanciare il processo di pace entro tempi non previsti. Con contenuti più incisivi. Muovendo da una nuova stagione di odii e risentimenti che allontanano tra i palestinesi l'alternativa democratica e laica. Tutto è divenuto più difficile dopo l'elezione di Obama. Ma Obama potrebbe essere una delusione solo perché è una speranza.

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