Barack Obama ha un problema serio: non è ancora riuscito a tradurre il consenso popolare in leadership politica a Washington. Possibile? Proprio ora che ha avuto il suo pacchetto di stimoli per l'economia? Possibile, perché i quesiti di fondo su questo pacchetto restano: qual è stato il prezzo che Obama ha dovuto pagare per ottenerlo? Soprattutto, sarebbe andata meglio se si fosse esposto in prima persona sul campo di battaglia? In questo primo scorcio di presidenza, a Obama è mancato lo "strappo", il colpo d'ala par affermare la superiorità della sua carica. Durante la battaglia sul bilancio ha fatto apparizioni pubbliche, in Florida, in Indiana, in Illinois, che hanno rafforzato i suoi indici di gradimento. Ma nel confronto con il Congresso si è esposto poco in prima persona. Sono andati avanti il suo capo di Gabinetto Rahm Emanuel e il suo consigliere economico, Larry Summers. Riaffiorano così i vecchi dubbi della campagna elettorale sulla personalità - troppo prudente - e sull'esperienza - poca - di un presidente da cui forse ci si aspettava troppo.
In passato la prudenza, il controllo, la disciplina hanno giovato a questo outsider giunto fino alla Casa Bianca. C'è un aneddoto: l'editorialista Maureen Dowd, che pure lo appoggiava, attaccò Obama per la sua cautela eccessiva, quasi noiosa e chiedeva più grinta. Prima dell'inaugurazione, quando i due si sono incontrati, il presidente le ha detto sarcastico: «Sarò stato prudente, ma oggi alla Casa Bianca ci sono io e non un altro». È vero. Ma gestire una campagna elettorale è diverso da governare. Il primo errore imputabile alla prudenza di Obama è quello di aver delegato al Congresso la stesura del pacchetto fiscale. Il risultato non poteva essere peggiore.
Il Congresso ha ceduto alle sue vecchie tentazioni, ha speso per le proprie basi elettorali, senza necessariamente "stimolare". E la spaccatura fra repubblicani e democratici si è fatta insanabile. Obama ha archiviato il sogno bipartitico. E per il voto di due repubblicani del Maine al Senato ha rinunciato a 17 miliardi di spesa per la costruzione di nuove scuole e a riduzioni fiscali per la classe media. Ora, dopo questo pacchetto, difficilmente avrà l'energia politica per spingere le sue principali promesse elettorali: riforma della scuola, della sanità e dell'ambiente. «Avrebbe dovuto sfidare i repubblicani al Senato, metterli davanti alle loro responsabilità», ha scritto l'economista Paul Krugman. Per prudenza - e forse per solitudine - Obama si è anche affidato alla vecchia squadra economica di Clinton, moderata e rassicurante. Ha scelto il centro, ma non ha dato quel segnale di cambiamento che aveva promesso. Ecco perché, a conti fatti, la Washington spregiudicata della politica ha già tradotto la prudenza di Obama in vulnerabilità.
L'inesperienza invece l'abbiamo vista lunedì scorso. Nella sua prima conferenza stampa il presidente è apparso poco sicuro e poco preparato. E ha scoperto che il passaggio dalla retorica elettorale all'arena politica non è automatico. L'inesperienza lo ha portato a far crescere le aspettative per il piano salva-banche di Tim Geithner. Che ha inevitabilmente deluso. È stato prima bocciato dal mercato. E ora già si parla di nazionalizzazione. L'inesperienza è anche alla base delle nomine imbarazzanti di tre candidati che si sono ritirati per problemi fiscali o politici. Siamo all'inizio. L'esperienza potrà venire sul campo. Ma Obama dovrà anche imparare a rischiare, perché la prudenza da sola, come dice la Dowd, non fa il leader.
