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L'appello ai capitali privati

di Marco Onado

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11 febbraio 2009

Il tanto atteso pacchetto finanziario dell'amministrazione Obama è un importante passo avanti, ma difficilmente sarà decisivo verso la soluzione della crisi, come è dimostrato dalla fredda accoglienza che gli hanno riservato i mercati. Il piano butta sul piatto della bilancia somme enormi, ma la situazione economica generale sembra peggiorare di ora in ora e ogni nuovo intervento rischia di essere inadeguato. Il neopresidente non ha usato mezzi termini e ha evocato il rischio di una «catastrofe».
Basta questa parola per demolire l'ottimismo di facciata secondo cui non si può ripetere una crisi tipo anni 30 perché i governi sanno cosa fare e lo faranno in fretta. Il guaio è che ogni crisi è diversa e dunque non ripetere gli errori di quella precedente è condizione necessaria ma non sufficiente per evitare i disastri già sperimentati.
Il piano annunciato ieri dal segretario al Tesoro Tim Geithner è una sorta di missile a tre stadi: il primo è rivolto alla ricapitalizzazione delle banche, il secondo allo stimolo del credito al consumo (un pacchetto che può arrivare fino a mille miliardi, il terzo agli investitori che intendono acquistare titoli strutturati del mercato ipotecario; questa parte dovrebbe portare alla costituzione di una specie di bad bank finanziata in parte da Tesoro e Fed e in parte da privati. Barack Obama ha deciso di evitare provvedimenti di nazionalizzazione e ha puntato su una scelta molto netta dal punto di vista politico: cercare di coinvolgere quanto più possibile il capitale privato nel salvataggio del sistema finanziario americano. Una via già aperta con il piano annunciato qualche giorno fa (Talf: Term asset-backed lending facility) in base al quale la Fed si è dichiarata disposta a finanziare gli investitori istituzionali, compresi gli hedge funds che intendono investire in titoli emessi a fronte di prestiti per l'acquisto di auto o concessi agli studenti, cioè due fra i settori più colpiti dalla rarefazione dell'offerta di credito.
Misure di questo genere adesso vengono generalizzate e attuate in dosi massicce. Un impegno di questo genere, possibile solo attraverso il sostegno della Fed, rappresenta uno scarto impressionante rispetto alla tradizionale dottrina del central banking e del credito di ultima istanza. Non era mai successo che un settore non regolamentato, per di più considerato da molti estremamente rischioso, come quello degli hedge funds potesse accedere direttamente alla Banca centrale. In altri termini la Fed, che già ha dilatato il suo bilancio concedendo credito alle banche dietro garanzia di titoli molto rischiosi, fa un ulteriore passo in questa direzione accettando di prestare anche su titoli di nuova emissione e quindi potenzialmente ancora più pericolosi. Auguri...
Il piano Obama si segnala anche per quello che manca (o quasi). Sono infatti ridotte al minimo le condizioni alle quali devono sottostare le banche che accedono a questa nuova tornata di aiuti. Le cronache riferiscono di un aspro dibattito all'interno del team presidenziale, conclusosi apparentemente con la vittoria del partito più vicino alle banche che non voleva mettere paletti troppo stretti, per non scoraggiare l'afflusso di capitali privati che è l'asse portante dello schema dal punto di vista politico. Ma questo comporta un ulteriore costo che si è deciso di pagare in aggiunta alla possibile perdita di indipendenza (e di solidità finanziaria) della Banca centrale. Non è difficile immaginare che in Parlamento il livello dello scontro fra maggioranza e opposizione, già elevato, crescerà ulteriormente e porrà serie minacce all'iter legislativo.
Anche sul piano delle regole ci si poteva aspettare un annuncio più deciso. Certo, non si può scrivere la nuova legislazione finanziaria in poco più di un mese, ma almeno si potevano indicare le linee guida che si intende perseguire per costruire un sistema bancario degno della fiducia del pubblico. E ormai conclamato che la crisi è scoppiata perché si è lasciato che tutta l'innovazione finanziaria degli ultimi venti anni si sviluppasse su terreni del tutto esterni alla regolamentazione tradizionale. E sono state soprattutto la regolamentazione e la vigilanza americana a consentire le lacune più vistose. Persino George Soros e Lloyd Blankfein (capo di Goldman Sachs) rilasciano oggi pensose interviste in cui affermano che lasciare totalmente privi di ogni controllo i mercati dei derivati è stato un errore strategico fondamentale. Oppure osservano che se a gennaio 2008 vi erano nel mondo solo 12 imprese con rating tripla A e ben 64mila prodotti Cdo (Collateralized debt obligations) con lo stesso voto, qualcosa non ha funzionato e occorrono regole adeguate. Sono però gli stessi che negli anni scorsi premevano sul legislatore per impedire ogni possibile regolamentazione che avrebbe quanto meno accresciuto la trasparenza e ridotto i rischi di carattere sistemico. E come ha messo in evidenza Mario Margiocco (Sole 24 Ore di ieri), si trovavano perfettamente d'accordo con quanti, a cominciare dal neosegretario americano al Tesoro, sono oggi chiamati a risolvere la crisi. Da questi ultimi sarebbe stato dunque lecito attendersi un annuncio riformista più deciso.

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