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In corsa contro il tempo. È la legge dei mercati

di Mario Margiocco

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28 Settembre 2008

L'accordo sul Tarp, il Troubled asset relief program, o salvataggio di Wall Street da 700 miliardi di dollari (e oltre), è stato preannunciato per questa sera attorno alle 18. Ma ieri sera, ora di Washington, un irrigidimento dei deputati repubblicani ha riportato elementi di incertezza. Questo non dovrebbe pregiudicare un risultato positivo, gli Stati Uniti non hanno scelta. E non perché il mancato salvataggio porterebbe a uno sprofondamento dell'economia interna, tesi usata per spiegare agli elettori l'urgenza. Se così fosse, qualche giorno in più non farebbe differenza. Ma perché senza un salvataggio i mercati sprofondano, a partire da Tokyo questa sera ora americana, per poi fare il giro del mondo e dare a Wall Street il colpo di grazia. E questo sì impone una tabella con tempi cronometrici. In caso contrario, la crisi del settembre 2008 sarebbe davvero la fine della centralità americana e gli equilibri internazionali, per quanto riguarda il peso dell'America, rassomiglierebbero rapidamente più a quelli di 100 anni fa che non a quelli di 20 anni fa, o dell'anno scorso.
Non succederà. Ma il passaggio del Tarp, in sostanza l'acquisto da parte del Tesoro di 700 miliardi (se basteranno) di titoli a rischio collegati soprattutto al mercato immobiliare americano, è un boccone duro da inghiottire per il contribuente in genere, e per il nerbo dei deputati radical-repubblicani della Camera in particolare. Un centinaio di parlamentari che hanno bloccato giovedì sera e notte un accordo già delineato sulla linea Paulson.
«Ho ricevuto molte e-mail dai miei elettori del Colorado, tutte contro l'intesa da 700 miliardi, nessuna a favore», dice il senatore democratico Ken Salazar. «Ma nello stesso tempo - aggiunge chiarendo bene il senso della situazione e del difficile passaggio in cui si trova la classe politica americana dopo il disastro di quella finanziaria - dobbiamo prendere una decisione che eviti una catastrofe». Non è facile, in un Paese che non ha mai amato Wall Street. E in cui il notevole tasso di populismo ha fatto sì che l'immagine più diffusa dei protagonisti della finanza, in periodi come quello inaugurato da ultimo dalla crisi Enron (2002-2003) e arrivato ora - si spera - al botto finale, non sia lontana da quella di Henry Gatewood. È il pomposo banchiere di Ombre Rosse di John Ford, fuggitivo e fedifrago con i 50mila dollari della Wells Fargo, salutati quando gli venivano consegnati dalla diligenza con un altrettanto pomposo «Quello che è bene per le banche è bene per il Paese». Che è stato negli anni scorsi un po' lo slogan di Wall Street e dell'estrema finanziarizzazione, cieca davanti ai rischi.
Per i 100 deputati repubblicani raccolti nel Republican Study Committee, e protagonisti della rivolta contro i loro stessi colleghi di partito del Senato, il passaggio del Tarp è doloroso perché la loro linea è sempre stata di assoluta difesa del libero mercato. Una iniezione di capitale pubblico di questa portata, pari a poco meno della metà del Pil italiano, è indigesta. Per alcuni giorni hanno cercato di introdurre elementi di libero mercato nel pacchetto, ottenendo qualcosa, ad esempio l'introduzione di una polizza assicurativa opzionale invece della vendita dei titoli disastrati, in asta rovesciata (vince chi li offre al prezzo più basso), linea più gradita ai deputati.
Certamente per il mercato è un momento nero. E per i deputati che ne hanno fatto una bandiera, nerissimo. Ma la loro difesa non è stata inutile. Ricorda che il mercato è come la democrazia, un sistema mediocre, ma di gran lunga il migliore. E che va difeso. Anche nei momenti peggiori. L'errore è stato quello di credere che il sistema, non privo di difetti, sappia sempre autoregolarsi, come autorevoli scuole economiche si erano impegnate a dimostrare.

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