Mancano solo quindici giorni. Non all'apertura del vertice di Copenhagen, ma alla sua chiusura, ovvero al momento in cui Connie Hedegaard – gran cerimoniere del summit, nonché neo commissaria europea per il clima – dira che «les jeux sont fait». Senza però aggiungere: «rien ne va plus».
Gli osservatori non sono genericamente troppo ottimisti: le mezze promesse di Cina e Stati Uniti – con Wen Jiabao e Barack Obama che verranno in Danimarca a ripeterle – non bastano a controbilanciare il divario fra il mondo ricco e quello povero, e neppure la distanza abissale fra gli indispensabili (e enormi) investimenti necessari e la volontà dei Paesi industrializzati di mettere mano al portafoglio. In questo scenario, quando la Hedegaard annuncerà che i giochi sono fatti, se l'esito non sarà soddisfacente non aggiungerà rien ne va plus perché – come molti sussurrano – il vertice dovrà produrre almeno un accordo-quadro da riempire di contenuti entro sei o, al massimo, dodici mesi.
Yvo De Boer, il capo dell'Unfccc (la convenzione Onu che tira le fila della diplomazia climatica internazionale) sta cercando di scongiurare una simile eventualità. «Questo è un evento dove si vince o si perde», ha detto. Ovviamente, secondo De Boer, chi vincerà o chi perderà, sarà il genere umano. In realtà, un pareggio – ovvero la firma di un accordo quadro da completare in tempi rapidi – potrebbe essere un risultato onorevole, per questa partita con 194 giocatori, quanti i Paesi del mondo. Ma, se qualcuno volesse scommettere, scommetterei – magari solo come dimostrazione di wishful thinking – su una vittoria.
L'esito non è scontato. Fra quattro giorni, la partita comincia.