L' Italia alla conferenza Onu di Copenaghen sul clima si presenta con una posizione un po' più negoziale, più mediatrice rispetto all'immagine compatta che di sé dà l'Unione europea. I negoziatori Ue sono molto aderenti alla posizione impostata soprattutto dai paesi nordici, cioè mirata su forti impegni di riduzione delle emissioni di anidride carbonica; gli italiani invece più che ai vincoli imposti tramite tagli e obiettivi quasi irraggiungibili preferiscono ragionare per strumenti e programmi.
Questa posizione italiana, più mediatrice, risponde al problema dell'Italia in rapporto con le emissioni di anidride carbonica. Il sistema europeo si è basato appunto sulla fissazione di obiettivi (la proposta ora in discussione parla di un taglio drastico delle emissioni del 30%: irraggiungibile con le tecnologie attuali) e sulla discrezionalità che ogni singolo paese europeo ha avuto nel trattare con Bruxelles le sue quote. Così alcuni paesi (Germania, Francia, Polonia per esempio) hanno conquistato programmi generosi, e quindi possono vendere sul mercato europeo molte quote di emissione, mentre l'Italia,per la debolezza di sequenze di governi (non è colpa di un solo governo) e per l'alta efficienza energetica già raggiunta, è stata sottoposta a quelle che il sistema industriale percepisce come vessazioni.
Nei fatti, il mercato europeo delle quote di emissione si sta limitando a produrre un semplice trasferimento di denaro da un sistema industriale all'altro e ha caratteristiche spiccatamente finanziare, senza avere come sottostante una reale propensione agli investimenti ambientali.
Osserva Corrado Clini, direttore generale del ministero dell'Ambiente e uno dei più noti negoziatori ecologici, che «l'Unione Europea, nonostante il "pacchetto clima-energia" e la disponibilità a mettere in campo importanti risorse finanziarie, fatica a definire una iniziativa in grado di affrontare la sfida tecnologica globale valorizzando tutte le potenzialità della nostra grande economia integrata che ha già raggiunto livelli significativi di efficienza e innovazione».
L'Europa – dicono le imprese italiane – è troppo concentrata sulle sue regole e sembra ancora aspettarsi che il resto del mondo si allinei al modello europeo.
Come si sa, «in un manzo la coda è la parte più difficile da mangiare»: come è facile conseguire molti cavalli in più partendo da un motore poco spinto mentre è costoso aggiungere un filo di potenza di più a un moto-re estremo, così il costo marginale per conseguire un po' di efficienza in più è molto alto ed è più facile conseguire un miglioramento partendo da una tecnologia più arretrata.
È il principio dei cosiddetti clean development mechanisms, i meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto ma il cui ricorso è limitatissimo dal sistema europeo. Poiché il clima è un problema del pianeta e le emissioni di anidirde carbonica sono uguali in tutto il mondo, il Protocollo di Kyoto conteggia alla pari una riduzione di emissioni conseguita su una moderna centrale ad alta efficienza (l'Italia ha le centrali a migliore rendimento in Europa) e su una vecchia centrale a lignite in Polonia, in Cina o in Serbia.
Le imprese italiane chiedono perciò di poter lavorare senza difficoltà in altri paesi.
A parere degli imprenditori italiani, Copenaghen segnerà un passaggio positivo se ci sarà convergenza su un quadro di riferimento condiviso di misure e regole, da mettere a punto e adottare da qui al 2012, per la creazione di una nuova economia globale decarbonizzata in grado allo stesso tempo di sostenere la crescita e dimezzare le emissioni entro la metà del secolo. Altrimenti, ogni ipotesi rimane pura utopia.