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Il vertice sul clima si chiude con un accordo non vincolante

dall'inviato Marco Magrini

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19 dicembre 2009

L'accordo raggiunto ieri notte al vertice climatico di Copenhagen fra Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sudafrica, è già un accordo a metà. Dopo che Barack Obama è salito sull'Air Force One alla volta dell'America, l'assemblea plenaria dei 192 paesi è stata convocata stanotte alle 3 per approvarlo. Siccome era necessario il voto unanime, l'opposizione di alcuni (come Sudan, Venezuela e Tuvalu) è stata scavalcata soltanto stamani alle 10:30, con un trucchetto diplomatico: invece di approvare il «Copenhagen Accord» raggiunto "privatamente" fra cinque paesi, il consesso planetario ha semplicemente «preso atto» dell'intesa.

Un'intesa dimezzata e tutt'altro che ambiziosa. Nonostante il disappunto, l'Europa e il Giappone hanno deciso di appoggiarla, considerandola comunque un passo avanti rispetto al fallimento che si andava prospettando. «Un cattivo accordo è meglio di nessun accordo», ha sentenziato il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, durante la conferenza stampa delle 2 di stanotte.

In poche parole, sulla carta restano soltanto il generico obiettivo di contenere entro i 2 gradi centigradi l'aumento della temperatura media planetaria e l'impegno finanziario verso i paesi poveri (30 miliardi di dollari per il triennio 2010-2012 e 100 miliardi all'anno dal 2020 in poi). Per il resto, sono spariti completamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni-serra: nella bozza del primo pomeriggio di ieri si parlava di -80% al 2050, poi di -50% e poi infine più nulla.
E' comunque previsto che entro gennaio vengano raccolti gli impegni volontari di ciascun paese e che a giugno (molto probabilmente a Bonn) verrà convocato un altro vertice per preparare l'appuntamento annuale di dicembre, che l'anno prossimo toccherà a Città del Messico. Sarà lì, almeno nell'aspirazione di Obama e degli altri estensori di questa intesa che ha letteralmente lasciato l'Europa fuori dalla porta, che potrebbe essere firmato un accordo internazionale, legalmente vincolante. Ma, neppure su questo, c'è il minimo impegno.

Anche il presidente degli Stati Uniti, che pure ha venduto al mondo il «successo» raggiunto da cinque paesi a porte chiuse, ammette che «c'è ancora molta strada da fare». La legge americana sul taglio dei gas-serra è ancora ferma al Senato, senza grosse possibilità di superare la ferma opposizione repubblicana e di qualche democratico dissidente. Se Obama - come speravano gli ambientalisti, che lo attendevano come il salvatore - avesse proposto qualche sforzo in più sui tagli promessi (-4% di emissioni fra il 1990 e il 2020, contro il 20% dell'Europa), il negoziato avrebbe preso un'altra strada. Ma in quel modo, il presidente avrebbe portato nuove frecce all'opposizione, possibilmente compromettendo il risultato. Poi, pur imbarcare i cinesi, ha dovuto fare concessioni di fatto annacquando il documento finale, consegnato alla storia come il «Copenhagen Accord».

Se Obama non poteva fare l'atteso colpo di scena, l'Europa sembrava invece pronta: sul tavolo, era ancora aperta la possibilità di alzare i propri impegni al 2020 dal 20 al 30%. Ma la precondizione era che qualcun altro facesse «offerte comparabili». «Non c'erano le condizioni necessarie», ha ammesso Barroso.

Le organizzazioni ambientaliste sono infuriate. «Copenhagen Cop Out», recita un comunicato di Oxfam con un gioco di parole. Cop, o conference of the parties, è il nome in gergo di questi vertici Onu. E « to cop out», in slang inglese, vuol dire «non prendersi responsabilità». «Copenhagen è il teatro di un crimine - drammatizza John Sauven di Greenpeace - con i colpevoli che scappano via all'aeroporto». Durante le due settimane di Copenhagen, la comunità scientifica ha espresso dubbi sulla possibilità di mantenere l'aumento della temperatura planetaria sotto i due gradi, generalmente considerati la soglia di rischio climatico.

19 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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