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La Cina ha giocato all'attacco

dal nostro inviato Marco Magrini

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20 dicembre 2009

Potè più Barack Obama o Wen Jiabao? Alla drammatica, risoluta e anche imprevedibile partita a scacchi giocata venerdì notte dentro al Bella Center di Copenhagen, hanno partecipato venticinque capi di Stato. Ma solo due di loro – un presidente americano e un premier cinese – hanno mosso veramente i re, i cavalli e le regine.
Obama ha giocato in difesa. La mancata approvazione al Senato della legge Waxman-Markey sul taglio delle emissioni di carbonio, dopo la facile benedizione della House of Representatives, gli legava le mani. «In America c'è la democrazia – commenta Annie Petsonk, dell'Environmental defense fund di Washington – e il presidente deve fare attenzione a non scavalcare il Congresso». E difatti il Copenhagen Accord approvato dalla plenaria Onu ieri mattina, dopo una notte insonne, è calibrato in modo scientifico: guai a dare l'impressione ai senatori che gli Stati Uniti si impegnino prima e più della Cina.
Così, Wen Jiabao e la risoluta squadra diplomatica del negoziatore Su Wei, hanno avuto la chance di giocare all'attacco. Di fronte alle ripetute richieste americane di poter controllare, misurare e verificare l'attuazione degli impegni in campo energetico e ambientale, la Repubblica Popolare ha puntualmente risposto picche.
Il Copenhagen Accord risolve il problema con eleganza, e un po' di evanescenza. Le verifiche ci sono. Ma sono verifiche domestiche soggette a «consultazioni internazionali, seguendo linee-guida ben definite che rispettino la sovranità nazionale». Nessuno potrà ficcare il naso più di tanto negli affari energetici cinesi. E intanto l'amministrazione Obama potrà dimostrare al Senato (dove i recalcitranti sono i repubblicani ma anche un paio di democatici) che le azioni di Pechino verranno adeguatamente controllate.
«Il nostro piano nazionale a 5 e 11 anni per la protezione del clima è stato approvato dal Congresso del Popolo, è stato implementato e i suoi risultati sono stati resi pubblici alla comunità internazionale», ha detto Su Wei per confermare che la Cina non accetta controlli dall'estero. E poco dopo, nel suo perfetto inglese, ha aggiunto: «Sono mesi che sento parlare della legge Waxman-Markey, dei suoi contenuti, delle proposte di modifica, della sua imminente approvazione. Ma non sappiamo se, e quando, diventerà legge». La differenza tra Wen e Obama è nel sistema politico che hanno alle spalle.
«È stato incredibile – racconta un diplomatico che vuole restare anonimo – vedere quei venticinque capi di Stato, seduti intorno a un tavolo a discutere sulle parole da cambiare, sui passaggi da aggiustare». Una riunione a 25 nata dopo che in una stanza vicina Obama era andato a incontrare Wen, che prima si era negato. Salvo imbattersi in un minivertice con Luiz Inàcio Lula Da Silva (Brasile), Jacob Zuma (Sudafrica) e Manmohan Singh (India). Sul momento, al protocollo cinese la cosa non sarebbe piaciuta granché. Ma poi, puntando sulle concessioni dell'ultimo minuto, la Repubblica Popolare ha contribuito ad accendere la fiamma di quel tiepido accordo. Quando ormai la parola «fallimento» era sulla bocca delle diplomazie schierate sul fronte di Copenhagen.
In quel taglia e cuci di parole che ne è seguito la Cina – grazie alla sua posizione intransigente – è riuscita a spuntarla su tutto. Incluso il celebre impegno scritto di ridurre le emissioni del 50% entro il 2050, che è sparito nel nulla.
Ovviamente ci sono delle ripercussioni. «La Cina ha fatto grandi sforzi per affrontare il cambiamento del clima – dice Ailun Yang di Greenpeace China – ma qui ha perso l'occasione per dimostrare di essere un giocatore responsabile, al tavolo delle trattative». Senza contare che, in un colpo solo, la Cina ha spaccato il fronte del G77 (il consesso di 130 Paesi in via di sviluppo del quale fa parte) e ha scontentato gli "alleati" India e Brasile. «Questo è un accordo deludente, figlio di un gigantesco compromesso», dice un ambasciatore brasiliano, dopo aver saltato due notti di sonno.
Ma un altro diplomatico che abbiamo interpellato, stavolta dell'Onu, la vede più in grande. «Abbiamo assistito – dice, mentre sale in metropolitana per andarsene – alla prima affermazione della nuova superpotenza cinese. Dopo l'economia e il debito americano, ha in mano anche le sorti del clima».
Più di Barack Obama, potè Wen Jiabao.

20 dicembre 2009
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