Barack Obama crede nella legge dei grandi numeri: preferisce il compromesso al fallimento, e confida che nel medio termine l'opinione pubblica americana si ricorderà più dei passi in avanti che delle battute d'arresto.
Prendiamo Copenhagen. Il presidente americano sa benissimo che l'accordo "politico" non vincolante raggiunto tra i grandi emittenti è un fallimento dal punto di vista strettamente ambientale. Sa che nel breve termine ne soffrirà, che la sua base è inviperita: "L'accordo di Copenhagen? Un crimine" ha titolato ad esempio il sito huffington.post. Ma Obama guarda al medio termine, appunto "ai grandi numeri", alle elezioni di novembre. Ovvio che in questo contesto gli strilli della sinistra non lo disturbano più di tanto, anzi. E il rispetto del suo paradigma centrale? Completo: il dialogo è meglio del silenzio, un accordo meglio della rottura. Per questo non sorprende il suo triplo salto mortale sulle posizioni di partenza.
Venerdì mattina minacciava: «Senza vincoli, verifiche e finanziamenti, non ci sarà un documento... meglio un non accordo che un accordo vuoto». Già venerdì pomeriggio accettava prontamente un accordo senza vincoli e verifiche. Ineffabile, ha ammesso lui stesso quanto la conclusione fosse vacua: «Firmato il documento? non so neppure se devo firmarlo visto che non è legalmente vincolante...».
Ma Obama sa benissimo quali sono i sui interessi. A Copenhagen la posta in gioco non era solo sull'ambiente. Era anche sulla governance globale. Possiamo forse ignorare la rapidità con cui è passato dal G-20 di Pittsburgh in ottobre al G-2 di Pechino di novembre? A Copenhagen Obama sapeva benissimo quel che stava facendo. E il suo nuovo modello non poteva fallire. Non dimentichiamolo: il 15 novembre scorso, al vertice Apec di Singapore, il suo sherpa Mike Froman aveva già annunciato il fallimento del vertice di Copenhagen nei suoi obiettivi più ambiziosi. Rileggiamolo: «I leader dell'Apec credono sia impossibile raggiungere a 22 giorni da Copenhagen un accordo internazionale vincolante sul piano legale». A Pechino, pochi giorni dopo Obama cercava il rilancio, ma sempre sul piano operativo. La concessione di Hu Jintao fu chiara: qualche limite, poi ognuno per conto suo, «parliamo di risultati operativi, non vincolanti». Poi le parole, le speranze, la furia negoziale per il rush finale.
E sulle verifiche? «Pazienza - ha detto Obama in conclusione a Copenhagen - avremo i satelliti per controllare lo stesso». Inutile sorprendersi più di tanto dunque per l'ambiente. A Copenhagen Obama ha ingoiato qualche rospo, ma ha fatto avanzare in territorio nuovo il suo modello di leadership a due con la Cina. E ha aggiunto Brasile, India e persino il Sud Africa. La notizia più importante è che al tavolo dove si è trovato l'accordo c'erano le grandi economie emergenti, il nuovo asse su cui poggia la governance mondiale. E non c'era l'Europa. Neppure un paese o un leader europeo, neppure Nicolas Sarkozy o l'amico Gordon Brown. Il modello va avanti. Tanto più che il bicchiere è anche mezzo pieno: rispetto a Kyoto quando i principali inquinatori mondiali restarono fuori qui ci sono tutti. Allora c'era il 30% del pianeta, oggi siamo all'85 per cento. Come dice Obama, il primo passo è sempre quello più importante. Poi, cinico, prima di partire per le Hawaii, lui, «il primo presidente del Pacifico», ha osservato: «Kyoto era vincolante... ma non lo ha rispettato lo stesso nessuno».