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Gli Stati Uniti aprono sul clima. Rasmussen: «Possiamo farcela, l'accordo è vicino»

di Marco Magrini

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8 novembre 2009

La più bella notizia, al vertice climatico delle Nazioni Unite che si è aperto ieri a Copenhagen, è venuta da Washington. Lisa Jackson, la presidente dell'Epa, la Environmental protection agency, ha convocato all'ultimo minuto una conferenza stampa per annunciare che l'anidride carbonica rappresenta un danno per la salute. Un passo che prelude a imminenti regolamentazioni sulle emissioni di gas serra per le nuove automobili in vendita e i nuovi stabilimenti industriali in costruzione, anche in assenza dell'apposita legge ferma al Senato.

Che la decisione dell'Epa sia arrivata proprio ieri, mentre nella capitale danese si apriva il sipario su questo summit così cruciale, è un chiaro segnale politico. «Abbiamo preso più iniziative contro il riscaldamento globale negli ultimi undici mesi che negli otto anni passati», ha detto la Jackson durante la conferenza stampa a Washington, vista in webcast anche a Copenhagen. L'esplicito riferimento è al doppio mandato dell'amministrazione Bush, che aveva puntualmente messo i bastoni fra le ruote degli ultimi otto vertici Onu.

La conferenza stampa a orologeria della Jackson è un segnale politico che Barack Obama manda agli altri 191 paesi del mondo: gli Stati Uniti ci sono. La mancata approvazione del Climate Change Bill, promesso in campagna elettorale e poi arenatosi in Senato, era stata sin qui la più brutta notizia per l'intero processo diplomatico pre-Copenhagen: era la prova che i soliti Stati Uniti, la nazione energivora che ha emissioni procapite doppie di quelle europee, il paese che ha firmato il Protocollo di Kyoto senza neppure presentarlo al Congresso per la ratifica, non sanno mantenere le promesse.

Se Obama aveva spostato la sua apparizione a Copenhagen da domani (con il vertice appena cominciato e la possibilità di fare solo un accorato appello) a venerdì 18, la giornata conclusiva, un motivo doveva pur esserci. Il presidente deve mantenere le sue promesse. Negli Stati Uniti, l'opposizione repubblicana ha subito cominciato a strepitare, sostenendo che in questo modo viene aggirato il Congresso. Ma a Copenhagen, c'è chi ha accolto le notizie da Washington come una bella speranza in più per il successo del vertice.

«Possiamo farcela, un accordo è vicino», ha detto il primo ministro danese Lars Lökke Rasmussen alla cerimonia di apertura del vertice, «per due settimane questa sarà Hopenhagen, perché, alla fine dobbiamo riuscire a dare al mondo quel che noi abbiamo già oggi: hope, la speranza di un futuro migliore».

Rajendra Pachauri, il presidente dell'Ipcc, il consesso di scienziati che è finito sotto accusa per la presunta manipolazione dei dati climatici, a causa di una collezione di e-mail trafugate all'università inglese dell'East Anglia, è stato risoluto. Ha detto che l'obbiettivo condiviso del vertice – non far salire la temperatura media di oltre 2 gradi centigradi – potrebbe non essere abbastanza, per evitare un aumento nel livello dei mari che potrebbe sommergere paesi come le Maldive o parte di altri come il Bangladesh. E poi, ovviamente, ha spezzato una lancia per il buon nome dell'Ipcc. «La coerenza di molteplici prove scientifiche – ha detto – conferma la qualità del lavoro della comunità scientifica».

Ovviamente, la partita è solo cominciata. Dopo l'annuncio a sorpresa di Washington, potrebbero arrivarne altri da Bruxelles. L'Unione europea, che sin qui è stata la paladina e l'animatrice degli annuali vertici climatici, a Copenhagen potrebbe rischiare di restare diplomaticamente schiacciata fra gli Stati Uniti e la Cina. A meno che non rilanci. «L'Unione europea – ha detto il ministro svedese Andreas Calgren, ora che Stoccolma è presidente di turno – è pronta ad aumentare dal 20 al 30% il proprio impegno di riduzione dei gas serra, ma occorre che gli altri portino qualcos'altro sul tavolo». Secondo il Financial Times, l'Europa sarebbe pronta a offrire fra uno e tre miliardi di euro nel triennio 2010-2012 per l'adattamento di paesi poveri agli effetti del cambiamento climatico.

La posta in gioco – la progressiva riconversione energetica del pianeta – è così alta, che le sorprese diplomatiche sono già previste in programma. «I negoziatori – ha detto ieri Yvo De Boer, il segretario generale dell'Unfccc, la convenzione Onu che organizza i vertici climatici – hanno il più chiaro segnale possibile dai leader del mondo: solide proposte per implementare una rapida azione. Mai, in 17 anni di negoziati sul clima, così tante nazioni avevano annunciato così tanti impegni. Così, mentre ci saranno ancora molti passi da fare su questa strada, Copenhagen è già oggi il momento-chiave nella risposta internazionale ai cambiamenti climatici».
La partita è solo cominciata. Ma gli Stati Uniti hanno bussato. Ci sono.

8 novembre 2009
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