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Regole certe per l'industria

di Jacopo Giliberto

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3 dicembre 2009

Dal summit di Copenaghen sul clima, che si aprirà la settimana prossima, le imprese si aspettano una politica nazionale e internazionale meno umorale di quella seguita finora. Si aspettano regole meno fumose, vincoli meno stravaganti rispetto a quelli che sta subendo la sola Italia secondo le regole sullo scambio delle quote imposte in modo anticoncorrenziale da Bruxelles. Il sistema europeo forse non è quello più azzeccato perché si basa su scambi virtuali di quote di emissione che in realtà sono un vantaggio economico per chi ha saputo negoziare meglio a Bruxelles (Francia e Germania, per esempio) a scapito della competitività delle aziende i cui governi sono stati meno efficaci. Agli schemi normativi in stile europeo, vengono preferiti dalle aziende i programmi e i progetti operativi.

Altrimenti finisce che gli investimenti sfumano, come certifica la rilevazione Istat sulla spesa ambientale italiana: nel 2007 gli investimenti in ecologia dell'industria sono scesi del 7,4% rispetto all'anno precedente. La composizione degli investimenti per settore ambientale ha registrato «un forte calo dell'incidenza di quelli per la protezione dell'aria e del clima – rileva l'Istat – mentre è aumentato in misura significativa il peso relativo delle spese per la gestione dei rifiuti».
L'Enel per esempio ha condotto moltissimi investimenti ambientali in Cina, paese che ha deciso di impegnarsi attivamente nel contenere la crescita delle emissioni e dove le imprese italiane accompagnate dal ministero dell'Ambiente hanno sviluppato duecento progetti verdi per circa 340 milioni, ma i benefici ambientali conseguiti dall'Enel non sono stati accreditati alla società, la quale così per rientrare nel limite europeo alle emissioni dovrà comprare a caro prezzo i diritti di emissione dalle vecchie centrali elettriche tedesche o polacche alimentate con lignite. L'Edison ha speso nelle fonti rinnovabili di energia, ma l'Italia vuole rivedere i canoni delle concessioni idroelettriche e non ha ancora deciso come limare gli incentivi all'energia fotovoltaica.

Sono incertezze che sconcertano chi deve investire. Così molte industrie energetiche cominciano a guardare più volentieri le ipotesi di una carbon tax, «ma fatta correttamente, chiara, semplice, costante e prevedibile – osserva Chicco Testa, esperto di energia e di ambiente – che è uno strumento altrettanto valido e funzionale dell'incentivo, di cui è il contraltare. Bisogna decidere se aiutare i bravi dando loro soldi o disincentivare i cattivi togliendoli».
L'ipotesi di una carbon tax coordinata a livello internazionale, avverte Corrado Clini, direttore generale al ministero dell'Ambiente e negoziatore nei trattati ambientali, non è da escludere: «Anche molte grandi compagnie petrolifere statunitensi sembrano preferire alle soluzioni fumose ed emotive una formula chiara come una tassazione sul contenuto di carbonio, che consente di pianificare gli investimenti, sebbene i petrolieri amino meno di altri le tasse e i vincoli».

Le imprese vogliono certezze ambientali, conferma Luca Dal Fabbro dell'Eon Italia, altrimenti – come diceva durante un incontro promosso dalla rivista «Formiche» – si mette a rischio il programma del colosso tedesco di dimezzare nel 2030 le emissioni di anidride carbonica delle sue centrali e di portare le fonti rinnovabili di energia dall'8% di oggi al 36% con una spesa di 8 miliardi di euro.
Nella confusione normativa italiana, spesso capace di grandi innovazioni come gli apprezzati certificati verdi e certificati di efficienza energetica, chi si forma in Italia ha esperienza da vendere. Così in mezzo mondo gli esperti italiani di quote di emissione sono richiestissimi, e hanno successo le imprese come la neonata Puraction con Antonio Urbano e Angela Racca o l'Icasco dove Pietro Valaguzza offre servizi avanzati di trading sui mercati paralleli per l'ambiente. «Le aziende italiane ed europee, in particolare quello a rischio di perdita di competitività per le regole ambientali – conferma Valaguzza – cercano di avere risposte alle loro domande sul futuro del Protocollo di Kyoto in modo da poter prendere decisioni consapevoli».

3 dicembre 2009
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