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REPORTAGE

A Phnom Penh, dalla S-21 ai Killing field

di Marco Barbonaglia

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13 novembre 2009

C' è un gran silenzio nel cortile dell'ex-scuola superiore di Tuol Sleng. L'edificio circondato da palme sorge in un quartiere popolare nella zona sud di Phnom Penh. Tutto intorno regna una pace rotta solo, di tanto in tanto, dalle grida dei bambini che giocano nei parchi. Nulla lascia intendere, oggi, che il cancello che ho appena varcato solo 30 anni fa era praticamente la porta dell'inferno.
Qui entravano i prigionieri dell'Angkar, l'onnipotente "Organizzazione" come i Khmer Rossi chiamavano la struttura di potere. Tutto doveva rimanere oscuro, compresi i nomi dei leader, ma i cambogiani impararono presto cosa c'era dietro questo apparente mistero. Se qualcuno ti prelevava dicendoti che l'Angkar ti doveva parlare, era a Tuol Sleng (o in un posto simile) che finivi.

Ribattezzato dagli uomini di Pol Pot "S-21", questo ex-liceo divenne il principale carcere di sicurezza del Paese. Da qui, in quasi quattro anni, uscirono vive sette persone, trovate dall'esercito vietnamita, che nel '79 aveva cacciato i Khmer Rossi. Accanto a loro c'erano i cadaveri straziati di altri 14 detenuti, torturati a morte in fretta e furia, nelle ultime ore del regime. Il numero di cambogiani rinchiusi a Tuol Sleng oscilla, a seconda delle stime, tra i 15000 e i 20000. A pieno regime, si calcola che venissero uccisi cento detenuti al giorno. Qui, si veniva schedati, reclusi e seviziati. La tappa successiva era Choeung Ek, il campo di sterminio a pochi chilometri dalla capitale, dove i prigionieri venivano finiti, spesso a bastonate per risparmiare i proiettili, e interrati nelle fosse comuni.

Pol Pot e il regime dei Khmer Rossi
  CONTINUA ...»

Per capire il senso di questo folle mattatoio bisogna conoscere la vicenda e l'ideologia di uno dei personaggi più misteriosi e sinistri del secolo scorso. Saloth Sar, alias Pol Pot (uno dei tanti pseudonimi da lui utilizzati), proveniva da una famiglia di medi proprietari terrieri. Per questo ebbe l'opportunità di studiare a Parigi, da dove non tornò laureato ma caparbiamente determinato ad instaurare un regime ispirato, soprattutto, a MaoTse Tung e alla sua Rivoluzione culturale.

A Pol Pot, però, mancava una base abbastanza grande alla quale attingere. Gli venne, allora, in aiuto la politica di Nixon e Kissinger, intenti a sganciare sulla Cambogia un quantitativo di esplosivo superiore a quello utilizzato in tutta la seconda guerra mondiale sul Giappone. Saloth Sar doveva prima regolare i conti con i vecchi comunisti filo-vietnamiti (lui era xenofobo e nazionalista). Lo fece e, intanto, mandò i suoi uomini a convincere i contadini ad unirsi a loro nella battaglia contro il fantoccio degli americani, Lon Nol.
Bastava portare queste persone semplici e terrorizzate davanti ai crateri scavati dalle bombe e spiegare loro che la rivoluzione era l'unico modo di fermare il massacro. Nel giro di pochi anni, i Khmer Rossi, che fino ad allora erano stati poco più di un manipolo , misero in piedi un esercito in grado di conquistare il Paese.

Due milioni di persone evacuate in 48 ore dalla capitale
Appena presa Phnom Penh, Pol Pot fece subito capire di che pasta era fatto. In 48 ore, evacuò una città di oltre due milioni di persone, tra abitanti e profughi. Tutti dovevano tornare alle campagne, compresi i malati gravi che stavano negli ospedali e i vecchi. Era iniziato l'anno zero della Cambogia.
Si doveva ritornare "alla purezza del chicco di riso", dunque solo i contadini erano ben visti dal regime. Venne abolita la moneta, furono svuotate le città e iniziarono i massacri. Prima toccò ai collusi con il governo di Lon Nol . Poi si passò a tutti coloro che avevano una cultura. Era sufficiente parlare una lingua straniera o anche solo portare gli occhiali perché poteva significare saper leggere. Pol Pot doveva fare una società nuova e, per arrivarci, doveva azzerare quella vecchia, distruggerne perfino la memoria. Fece sparire medici, ingegneri, intellettuali e, naturalmente, si accanì sui monaci buddhisti.

Presto, in un clima di sospetto e paranoia crescente, venne il turno dei contadini. Alla fine il regime arrivò a massacrare i suoi stessi uomini. Anche questo è scritto nelle immagini del memoriale di Tuol Sleng: i torturatori che, in una violenza sanguinaria giunta al parossismo, diventano i torturati. Non c'è da stupirsi se i Cambogiani, nel '79, accolsero i vietnamiti, tradizionalmente i loro nemici, come dei liberatori.

Tuol Sleng racconta tutto questo. Ogni dettaglio è scritto con il sangue nelle mura spoglie e scrostate. Nelle stanze desolate dove sembra di sentire ancora le urla dei detenuti. Camere vuote, con una branda di metallo al centro, sulla quale sono posati i bastoni di metallo arrugginito e le vecchie batterie utilizzate per dare la scossa ai prigionieri. Qualcuno ha appoggiato un fiore bianco vicino agli strumenti di tortura.

D'un tratto, mi scopro a guardare oltre le grate della finestra, il cielo azzurro e limpido, solcato appena da qualche nuvola leggera. Mi domando che cosa doveva provare chi, rinchiuso qua dentro, poteva solo spiare brandelli di quel mondo che non avrebbe rivisto mai più. Ci raccontano la storia dell'orrore quotidiano di Tuol Sleng anche le agghiaccianti regole affisse nel cortile e un brivido mi percorre la schiena quando arrivo al punto 6: "Mentre vieni bastonato o colpito dalla scossa non devi assolutamente gridare".

13 novembre 2009
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