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REPORTAGE

A Phnom Penh, dalla S-21 ai Killing field

di Marco Barbonaglia

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13 novembre 2009

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Il percorso nell'ex-scuola trasformata in Museo del Genocidio prosegue tra pannelli con centinaia e centinaia di foto. Immagini di uomini, donne, bambini che guardano il visitatore dal passato e lanciano un urlo d'accusa senza voce. Sono gli stessi volti della gente che vedo, ogni giorno, per le strade.

I Khmer Rossi documentavano tutto, per questo ci sono tante fotografie. A volte i carcerati sono ritratti insanguinati dopo le sevizie, altre volte al momento della cattura. Giovani donne ci osservano, rassegnate, mentre tengono in braccio bambini piccolissimi, già condannati, anche loro, a morte.
Dalla discesa in questo girone infernale esco solo per raggiungere il luogo dove si consumava l'atto finale della tragedia: Choeung Ek, ovvero i "Killing fields". Un ex-frutteto cinese, 15 chilometri a sud di Phnom Penh, dove i prigionieri di Tuol Sleng venivano, infine, giustiziati.
Pago i due euro dell'ingresso, mentre il cielo ancora azzurro si sta rapidamente oscurando nella parte orientale. Un enorme stupa buddhista, per commemorare le vittime, si erge davanti a me. Dentro, racchiusi in teche di vetro messe una sopra l'altra, ci sono circa cinquemila teschi che, a guardare verso l'alto, sembrano non finire mai. Molti sono rotti, fratturati dai colpi di bastone. Sono divisi in base al sesso e all'età, come recitano le targhette perché qui, ovviamente, non si riesce nemmeno a collegare i nomi delle vittime alle ossa che sono state dissotterrate.

Una guida, che non vuole essere pagata, mi accompagna. E' un uomo sulla cinquantina, non troppo alto, con un viso squadrato sul quale non spunta mai un sorriso. Nei campi che stiamo calpestando, mi spiega, ci sono i resti di almeno altre 10mila persone e mi indica, con naturalezza, dei piccoli oggetti biancastri conficcati nel terreno. Li guardo bene: sono denti. Di fianco brandelli di vestiti mezzi interrati fanno parte del paesaggio. Più avanti, delle ossa umane paiono rami secchi che spuntano dal suolo.
" Ci sono fosse più grandi in Cambogia". Mi dice e mi mostra le palme dai rami seghettati e taglienti che venivano utilizzate per sgozzare i prigionieri. Più avanti ci sono gli alberi contro i quali venivano spaccate le teste dei bambini, tenuti per i piedi dai Khmer Rossi.

"Pol Pot, crazy man- continua a ripetermi con disgusto. " Mao Tse Tung and Pol Pot" e scuote la testa. Poi sposta lo sguardo e aggiunge secco: " I miei genitori sono qui, da qualche parte". Negli anni del terrore, lui, che era studente, è fuggito da Phnom Penh e si è finto contadino. Non capisce la politica quest'uomo, non riesce a spiegarsi il perché i luogotenenti superstiti di Saloth Sar ancora oggi non vengano condannati. "Se ammazzi un uomo vai in prigione - mi dice - a loro nessuno fa nulla".
Mi spiega che il comunismo gli sta bene (ed evidentemente allude ai vietnamiti che liberarono il Paese da quest'incubo) ma, naturalmente, non quello di Pol Pot, né del Grande Timoniere cinese suo maestro, che a lui paiono quasi dei demoni. Poi, alla fine, trova la forza di scherzare quando si presenta prima di salutarmi. " Mi chiamo Mao. Non Mao Tse Tung, però". E si sforza di sorridere.

Come può trovare la pace quest'uomo? Una persona che vive per tenere acceso il ricordo in una nazione che ha privatizzato Choeung Ek, dandolo in gestione ad una società giapponese, che la usa per farci i soldi, come fosse un'attrattiva turistica qualunque.
Come può conoscere la giustizia una nazione che ha, finalmente, arrestato i leader dei Khmer Rossi, tra i quali Duch, al secolo Kaing Guek Eav, ex-direttore proprio di Tuol Sleng, ma che non li sa condannare? Il sadico torturatore, capo dell' "S 21" ha perfino ammesso i crimini, addirittura gli omicidi dei bambini sbattuti sugli alberi, ma per il momento non è ancora stato giudicato. Il suo processo è iniziato solo a febbraio.

Gli altri Khieu Samphan, Ieng Sary, Noun Chea, responsabili quanto Pol Pot delle atrocità commesse, non saranno processati (nella migliore delle ipotesi) prima dell'anno prossimo. Qualcuno, invece, è morto senza finire alla sbarra, facendo un favore a molti. Perché in verità nessuno, tranne le vittime o i loro parenti, ci tiene più di tanto a questo processo.
Non il premier Hun Sen, un ex-Khmer Rosso che ha cambiato casacca al momento opportuno e che ha poi governato, scendendo spesso a patti con molti dei suoi ex-compagni. Non la Cina che sapeva tutto e che ha una pesantissima responsabilità ideologica. Non gli Stati Uniti che, nelle logiche perverse della guerra fredda, pur di contrastare il Vietnam, hanno finanziato e sostenuto la cricca di Pol Pot come legittimo governo cambogiano per anni, quando ormai si conoscevano molto bene i crimini commessi.

Tutto questo lo so, me lo hanno spiegato in molti. L'ho letto e studiato. Ma una domanda mi accompagna ugualmente, mentre me ne vado sotto la pioggia che ricomincia a cadere. Chi lo andrà a spiegare alla mia guida, che passa le giornate a mostrare ai visitatori il luogo dove è stata trucidata la sua famiglia, senza più riuscire a sorridere da trent'anni?

13 novembre 2009
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