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REPORTAGE

«Ma perché vuole andare proprio a Kompong Chhnang?»

di Marco Barbonaglia

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21 novembre 2009

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Le lezioni alle quali assisto sono tenute da professori (formati appunto da Cesvi) tanto giovani da risultare difficilmente distinguibili dagli allievi. Ridono tutti quando qualche volontario deve provare ad infilare il profilattico su di un fallo di legno. Il divertimento aiuta gli studenti a non annoiarsi e a partecipare ma imparare ad avere dimestichezza con i preservativi non è certo un gioco in un Paese dove l'Aids ha una grossa diffusione.
La sera vado a cena con lo staff di Cesvi, Marco, Francesca e Diego, che oltre a essere dei professionisti seri si rivelano una piacevolissima compagnia. Mi portano in un ristorante dove mangiamo un ottimo Lok-lak, carne di manzo marinata servita con verdure e una salsina di lime, pepe e olio. E, seguendo l'esempio dei miei commensali abituati alla vita cambogiana, faccio praticamente tutto quello che le guide dicono di evitare a tavola in Cambogia, dal magiare pomodori e insalata cruda al bere bibite piene di ghiaccio.

Quando rientro nella stanza essenziale ma pulita del mio albergo, vicino alla sede di Cesvi, mi cade l'occhio sul regolamento. Dopo alcune raccomandazioni normali, del tipo " Non fare rumore" , trovo una regola decisamente particolare. " Le armi e gli esplosivi devono essere lasciati al proprietario dell'hotel". Questo mi ricorda che sono in una nazione che ha convissuto con la guerra civile fino a una decina d'anni fa. Un Paese dove, evidentemente, la gente che gira ancora armata non è così poca.
Il giorno seguente mi alzo presto per seguire un altro intervento di Cesvi. Saliamo su di una barca mentre ricomincia a piovere e raggiungiamo un piccolo villaggio al di là del lago che, con tutta l'acqua che è caduta, è uscito dagli argini e ha sepolto alberi, case e strade. Camminiamo per circa 500 metri nel fango , tra le capanne, fino a quando raggiungiamo una costruzione piuttosto nuova e abbastanza grande. E' un Health Center, la struttura medica di base per gli abitanti del posto. E' una delle migliori dell'area, mi avvisa Marco- ed è per questo che Cesvi vuole utilizzarla per farne centro modello.
Il problema, in Cambogia, è che anche dove ci sono gli edifici manca il personale medico. Uno, insomma, se è fortunato, in un Health Center può trovarci un infermiere ma è molto difficile che ci sia un dottore.

Mentre riattraversiamo il Tonle Sap penso che, in fondo, esistono degli investimenti buoni, dei soldi che la comunità internazionale spende bene anche in Cambogia. Sono i fondi destinati ad organizzazioni come Cesvi, che dispone sul territorio di persone serie ed esperte che lavorano con passione. I risultati si vedono e aiutano a credere che, per il futuro di questo Paese, ci sia qualche speranza.

L'ultima cosa che voglio fare prima di andarmene da qui è visitare un villaggio galleggiante. Per l'organizzazione, Marco chiede aiuto a Savoy che, in men che non si dica, mi trova un tuk-tuk. Il conducente che capisce si e no una ventina di parole d'inglese, mi porterà a destinazione per 10 dollari . Sul suo mezzo viaggia anche il figlio, un bellissimo bambino di 3/4 anni, che il padre infila in una amaca abborracciata davanti a me, alla faccia della sicurezza.
Il tragitto fino al villaggio su questo carretto trainato da una moto dura circa un'ora ed è un'altra incredibile immersione nel meraviglioso paesaggio cambogiano. In mezzo ai boschi, poi tra i campi color smeraldo con le colline ondeggianti sullo sfondo e poi i prati, le infinite risaie e le palme, tozze e basse oppure altissime e affusolate, fin dove l'occhio può arrivare a vedere.
La corsa finisce quando arriviamo ad un mercato che chiude il sentiero. Sono l'unico occidentale lì in mezzo e quando qualcuno mi rivolge la parola, naturalmente, non capisco nulla. Per fortuna il proprietario del tuk-tuk mi aiuta a trovare una donna che fa il pescatore e che accetta, pagandola naturalmente, di portarmi al villaggio. La sua barca è una long-tail boat, classica imbarcazione del sud-est che sembra una specie di lunga canoa con un'elica attaccata all'estremità.

Per raggiungere le prime case ci impieghiamo circa 20 minuti. Non si tratta di palafitte erette sull'acqua ma di abitazioni costruite su piattaforme galleggianti. E' un villaggio di vietnamiti al quale non manca nulla, dal distributore di benzina alla chiesa. Ci sono catapecchie ma anche appartamenti arredati con mobili costosi. E poi negozi, supermarket, bar, parrucchieri, ristoranti. C'è tutto, solo che ogni costruzione galleggia. E' quasi incredibile pensare che esista ancora un posti così: un paese che se il fiume si secca, semplicemente si può spostare. Tutto insieme. Un luogo che sembra uscito da una fiaba, nel quale per andare da una casa all'altra, gli abitanti salgono sulle barche oppure si tuffano in acqua…

Ad un certo punto la vietnamita che guida la barca attracca in un'ansa e mi fa cenno di scendere. Intorno a me c'è qualche capanna, un tempio diroccato sulla collina e, dietro, la giungla intricata e misteriosa. Ne approfitto per visitare il santuario, dentro al quale ci sono dei begli affreschi che illustrano le varie tappe della vita di Buddha. Quando esco, per poco non calpesto un serpente colorato lungo almeno un metro e mezzo che si drizza all'improvviso e mi fissa spaventato. Non quanto me, naturalmente, che faccio un balzo all'indietro tra le risate dei vietnamiti. Per fortuna, il rettile ha in bocca una rana e quindi, per mordermi, dovrebbe rinunciare al pasto, cosa che non intende assolutamente fare.
  CONTINUA ...»

21 novembre 2009
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