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REPORTAGE

Siem Reap, il nuovo volto della Cambogia

di Marco Barbonaglia

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6 novembre 2009

Seduto nella veranda di un ristorante nel centro di Siem Reap, sto finendo il mio Amok. Il pesce cucinato nel latte di cocco con citronella e spezie, servito in una scodella di foglie di banano, è uno dei piatti nazionali cambogiani. La cucina khmer è meno raffinata e varia di quella thailandese, ma è comunque una gustosa sintesi dei sapori del sud-est asiatico. Come uno specchio della realtà storica e politica del Paese, schiacciato da sempre tra le grandi potenze regionali, la sua gastronomia sembra un po' thai, un po' vietnamita, non priva di influssi cinesi.
Questa sera mi sono concesso il lusso di cenare in uno dei ristoranti più eleganti della città. In fondo, da queste parti, significa soltanto spendere una decina di dollari, invece dei tre-quattro dei locali più ordinari. Nelle bancarelle , naturalmente, si può mangiare anche con meno. A patto di non essere troppo schizzinosi e di non avere pretese sulle condizioni igieniche.

Mentre la pioggia continua a cadere, mi domando che cosa stia diventando Siem Reap, il vero cuore pulsante del turismo cambogiano. Poco interessante di per sé, è però la base per le visite ad Angkor, i cui templi distano, da qui, meno di 10 chilometri. Con una simile posizione il suo destino sembra segnato. Una città in continua, frenetica espansione, capace di cambiare volto con impressionante rapidità. Così, mentre le nuove costruzioni si allungano verso la giungla e i templi, trasformando il volto della tranquilla campagna circostante, in centro i ristoranti e i bar si susseguono uno dopo l'altro, lasciando spazio qua e là solo agli internet- point e ai centri massaggi. Al punto che alcune strade, ormai, invece che con i vecchi nomi sono indicate sui cartelli come Pub-street, Restaurant Street, Guesthouse Road.
Di autentico sono rimasti giusto i mercati, lo Psaar Chaa e lo Psaar Kandai. Qui si può passeggiare tra le cassette strapiene di pesce di ogni tipo, pescato nel Tonlè Sap oppure portato dal mare. Dai crostacei, come i gamberi di fiume, i granchi, gli scampi ai grossi pesci gatto dai lunghi baffi. Tra questi banchi si vedono i cambogiani che vanno e vengono, contrattano, scelgono la merce. Qualcuno si ferma a mangiare in un chiosco, dove due donne friggono del cibo in un grosso wok. Poco più avanti, c'è la coloratissima zona della frutta e della verdura, dalla quale provengono anche gli odori pungenti delle spezie.
E poi, ancora, le bancarelle che vendono capi di abbigliamento, tra i quali le onnipresenti krama, le sciarpe a quadretti, vero e proprio simbolo del vestiario Khmer. Qui le voci delle donne richiamano i turisti con la loro dolce cantilena e le vocali delle parole inglesi che si allungano a dismisura. " Hellooooo" " Welcoooome "Souvenir, Siiiir?" .

Bevo un tè al gelsomino e guardo il cielo scuro che non smette di gettare secchiate d'acqua da almeno 3 ore. La pioggia aumenta continuamente d'intensità e si rovescia sulla terra con furia spaventosa, come se migliaia di cascate si riversassero, tutte insieme, dalle nuvole. Mi avevano avvertito, nel pomeriggio, dell'arrivo di una tempesta tropicale, ma non avevo dato molto peso alla notizia. Sbagliavo. E sbaglio ancora quando indosso il sottile impermeabile comprato a Bangkok e mi incammino verso l'albergo, invece di salire su di uno dei tanti tuk-tuk schierati sul marciapiede.
Faccio in tempo ad attraversare il ponte e mi ritrovo con l' acqua ai polpacci. La strada completamente è allagata. Un grosso ratto morto annegato mi scivola tra i piedi. In questa parte della città, oltretutto, non c'è quasi illuminazione. Per fortuna, mentre mi rimbocco i pantaloni e cerco di proseguire sento il rumore di una moto. – Tuk-tuk, sir?- Benedico l'autista, tra me e me, e accetto il passaggio.

La guesthouse nella quale alloggio è un edificio quasi interamente in legno, un po' fatiscente ma non privo di fascino. Appena varco il cancello, trovo il proprietario a torso nudo, con i pantaloni tirati su fino alle ginocchia, intento a passarsi un pettine tra i capelli bagnati. Mi saluta, sorride, alza le braccia verso il cielo. Poi chiama due donne che mi accompagnano in stanza per sincerarsi che non si sia allagata. In effetti, l'acqua filtra dalle assi del soffitto e gocciola con insistenza sul pavimento. Qualcuno porta un grosso catino di metallo e risolve il problema posizionandolo in corrispondenza della perdita.

Esco dalla camera e mi siedo su di un divano nella grossa balconata in legno scuro che da sulla strada, la parte più bella dell'albergo. L'acqua sta cadendo ancora più forte mentre l'oscurità che si è posata su Siem Reap viene squarciata, ritmicamente, dalle improvvise lame di luce dei fulmini. Un tifone sta colpendo tutta l'area. Per fortuna qui, per quanto violenta, la tempesta è arrivata un po' attenuata rispetto, per esempio, al Vietnam.
D'un tratto mi si avvicina un ragazzo legato da una parentela che non riesco a decifrare con la famiglia di proprietari. Non è la prima volta che ci incrociamo e chiacchieriamo su questo ballatoio. Scuro di pelle come sono i Khmer, ha un viso rotondo e un'espressione gioviale con un eterno sorriso stampato sul volto. Dopo un po' che parliamo, per la prima volta tocca un tasto delicato. Quello degli espropri delle terre dei contadini.
  CONTINUA ...»

6 novembre 2009
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