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REPORTAGE

I templi di Angkor tra storia e magia

di Marco Barbonaglia

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10 novembre 2009

Il fronte bianco e grigio delle nuvole si è rotto. Dal muro opaco, che per quasi 48 ore ha oscurato il cielo, incominciano a filtrare i primi raggi di luce. Le nubi disegnano, ora, un complesso broccato, tra gli stracci di azzurro che fanno capolino, qua e là, sopra le nostre teste. Il sole esce, finalmente, a marcare confini ancora confusi tra ombra e chiarore, nei campi e nelle foreste ed è come se sorgesse per la prima volta sulle guglie di Angkor Wat. Spettrali e cupe fino a qualche minuto fa, offuscate da una pioggia sottile e inconsistente che ne appannava le forme levigate dal tempo, quasi dorate adesso, svelate all'improvviso dai bagliori che le inondano.

C'è qualcosa di magico e irreale nella luce che dipinge il groviglio della giungla delle varie tonalità di verde e che accende di un vivissimo color smeraldo gli sconfinati campi costellati di palme. Quasi valeva pena di stare due giorni sotto la pioggia battente per assistere a questo spettacolo incredibile, sotto un cielo che sembra dipinto.

Angkor non è solo un insieme di straordinarie rovine, né un sito archeologico come un altro, è il simbolo stesso della Cambogia. Il cuore dell'Impero Khmer, che per oltre 500 anni fu una delle più grandi potenze del sud-est asiatico. Una città che arrivò ad avere una popolazione di un milione di abitanti quando Londra, per esempio, ancora non contava 50000 cittadini. Nell'età dell'oro, furono i suoi sovrani a dominare gran parte dell'area. Una dinastia di imperatori che si susseguivano, facendo a gara per costruire templi sempre più maestosi e imponenti. Così arrivarono a creare quell' El dorado asiatica che oggi ci appare come un miraggio nel mezzo della giungla.

Ma uno strano destino era scritto per loro. Sconfitti dai thailandesi, che avevano già saccheggiato Angkor meno di un secolo prima, nel 1431 dopo tanto splendore, i Khmer conobbero la rovina. La disfatta arrivò totale e definitiva. Costretti ad abbandonare la loro favolosa città, si ritirarono sempre più a sud, lungo il Mekong. Con il tempo costruirono una nuova patria e un'altra capitale, ma nulla fu più come prima. Alla fine, incredibile a dirsi, arrivarono perfino a dimenticare il loro passato, l'esistenza stessa e la storia della leggendaria città-tempio.

Per oltre 400 anni dopo il saccheggio, Angkor fu consegnata all'oblio, sepolta dagli alberi, nascosta tra la vegetazione tropicale. Naturalmente, gli abitanti della zona sapevano di queste rovine ma del loro eccezionale passato si era persa la memoria. Toccò, allora, ad un naturalista francese, attratto dalle voci sui resti di un'antica civiltà nei pressi di Siem Reap, riscoprire quasi per caso Angkor, nel 1860.

Ed è proprio a Henry Muohot che penso, ammirando l'enigmatico Bayon, una foresta di pietra dalla quale 216 volti spiano il visitatore, con sorriso ambiguo, quasi beffardo, tenendolo sempre e ovunque sotto il loro sguardo. Cerco di immaginare che cosa deve aver provato il viaggiatore francese trovandosi, d'un tratto, di fronte a questo spettacolo, nel bel mezzo della foresta.

Perché il mistero di Angkor è davvero racchiuso nel suo destino. E' come se la natura si fosse ripresa lo spazio che l'uomo le aveva sottratto, mettendo radici, coprendo tutto con alberi, foglie, piante di ogni tipo. Poi, dopo aver quasi cancellato ogni traccia di civiltà, d'improvviso ne restituì le rovine ma senza rinunciare del tutto al suo dominio, come avesse voluto lanciare un avvertimento. Ecco, allora, il prodigio di un capolavoro costruito, insieme, dal genio dell'uomo e dalle leggi della natura, in una sorta di lunga battaglia che assomiglia, per assurdo, ad una bizzarra e involontaria collaborazione.

Ma il fascino di Angkor non è neppure tutto qui e, in fondo, non è esprimibile né tanto meno spiegabile. Non sappiamo nemmeno il vero utilizzo o la ragione di molte costruzioni, il significato di tutte le incisioni o della collocazione degli edifici. Eppure, in questa città fantasma c'è qualcosa che parla al nostro inconscio, un' arcana impronta, un segno archetipico che fa parte dell'animo e della natura umana. Qualche cosa di indefinito che riusciamo ad intuire, senza doverlo necessariamente decifrare.

I bassorilievi di Angkor Wat, per esempio, ci parlano. Ci mostrano battaglie, torture, nascite e morti. Come una profezia scritta nella pietra raccontano il passato e il presente di chi li realizzò ma, in qualche modo, anche il futuro. Il saccheggio della capitale Khmer, la diaspora e poi, secoli dopo l'incubo dei Khmer Rossi, la violenza, la distruzione e la vita che riparte.

Sembrano ammonirci sul senso effimero dell'esistenza, eterna ruota nella quale dolore e gioia, splendore e rovina, inizio e fine si alternano come le stagioni.

Legata alla storia della Cambogia, Angkor non è più una chimera nascosta dalle fronde degli alberi. Lo sfruttamento turistico di questa meraviglia fu bloccato, è vero, come ogni cosa dall'avvento dei Khmer rossi. Proprio tra queste stesse pietre si nascondevano negli anni della guerriglia contro Lon Nol. D'altra parte, chi avrebbe osato bombardarli qua in mezzo?

  CONTINUA ...»

10 novembre 2009
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