Lo scopo dichiarato è di offrire un manifesto politico, esattamente come fece per la destra americana il senatore dell'Arizona Barry Goldwater con il suo "The Conscience of a Conservative" del 1960. Goldwater era un politico, diventò candidato repubblicano, fu umiliato da Lyndon Johnson alle presidenziali del 64, ma nel '68 la vittoria di Richard Nixon incominciò vendicarlo e 12 anni più tardi gli Stati Uniti entravano nella lunga stagione repubblicana radicale di Ronald Reagan che si sta chiudendo con George W. Bush ed è finita, probabilmente, con il voto per il Congresso del novembre 2006. Una stagione di cui Goldwater era stato l'antesignano.

Con The conscience of a Liberal ( 350 pagine, W.W.Norton, 26 dollari), appena uscito, Paul Krugman, economista fra i maggiori negli Stati Uniti, docente a Princeton ed editorialista del New York Times, vuole diventare il profeta del nuovo liberalism americano . Con obiettivo una netta vittoria già al prossimo voto del novembre 2008, considerata probabile da tutti o quasi i pronostici.
Liberal in America è un termine "controverso e ambiguo", scriveva a suo tempo il New York Times, e ha avuto una gamma articolata di significati negli ultimi 70 anni. Tuttavia al nocciolo, nell'accezione americana, vuol dire responsabilità pubblica per il benessere generale, oltre che tolleranza.

Il New York Times ha quasi stroncato il saggio storico-politico del suo collaboratore, domenica scorsa, ma questo non ha fatto altro che aumentare l'interesse. Krugman è diventato un simbolo. Il recensore, David Kennedy, storico di fama a Stanford, attacca l'impianto storico del libro, considerato riduttivo. E di un libro di storia, più che di economia, si tratta.
Krugman, sempre efficace nelle sintesi, ha voluto rileggere in modo semplice più di un secolo di storia socio-politica americana, prima ancora che di economia. Il tutto attorno al binomio giustizia e libertà, o iustizia e arbitrio. Si parte dal Long Gilded Age, come lo definisce Krugman allungando la stagione classica del primo periodo dell'industrializzazione americana e facendola arrivare fino a tutti gli anni 20: una lunga era di arricchimenti e soprusi. Poi il New Deal e la lunga stagione del liberalism portarono più giustizia, dal "32 al "68. Poi gradatamente si instaurò un secondo Gilded Age. Ed è stata da allora e finora la negazione di quanto Roosevelt dichiarava nel suo Secondo discorso inaugurale:«Il test del nostro progresso non sta nel fatto se aggiungiamo cose all'abbondanza di chi già ha molto; consiste nella capacità di provvedere abbastanza per quelli che hanno poco». E' stato, fino a ieri e oggi, un nuovo egoista Gilded Age.
E' un manifesto politico. Interessante e dettagliato nel capitolo sulla necessità di un servizio sanitario nazionale ancora incompleto e che lascia circa 45 milioni di americani senza copertura. A volte sbrigativo nell'identificazione dei democratici con il progresso e dei repubblicani con l'arroccamento egoista.

Krugman entra poi in una polemica, che divide anche il liberalism americano, su come mai la stagione reaganiana ha dominato così a lungo. La tesi prevalente, fatta propria due anni fa dal liberal Thomas Frank nel suo What's the Matter with Kansas, dice che i repubblicani sono riusciti a portare molti blue collars a una sorta di populismo conservatore, e a farli votare repubblicano. In odio alle élites progressiste. Una mutazione genetica. L'interpretazione di Frank è diventata standard.
Non è vero, il voto popolare non è andato a destra, sostiene Krugman utilizzando l'analisi elettorale fatta a fine 2005 dal politologo di Princeton Larry M. Bartels. E' successo solo nel sud con i democratici segregazionisti, passati gradatamente dal "68 in poi con i repubblicani. «Alla fine tutto si riduce a una questione razziale», scrive Krugman.
Bartels nel suo saggio è più problematico. «La solida eredità del New Deal si è andata erodendo», scrive verificando una costante diminuzione della fedeltà al partito democratico, non solo nel Sud, fra i bianchi al voto presidenziale.
Ma eravamo nel dicembre 2005. Nel novembre 2006, votando per il Congresso, gli americani hanno premiato i democratici. I repubblicani sono in crisi. la Casa Bianca, anche se non sempre il voto presidenziale replica quello congressuale, è a portata di mano. Non si capisce come i repubblicani possano conservarla. Krugman parla di un Nuovo New Deal. Riusciranno i liberal a incarnare la nuova stagione politica? I numeri dicono che sono circa la metà dei democratici, e quindi tra un quarto e un quinto dell'elettorato, diviso in un rapporto grossomodo di 40-30-30 fra democratici repubblicani e indipendenti. La partita è ora quella di dimostrare, agli indipendenti soprattutto, che il vecchio liberalism ha oggi le risposte giuste.

 

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