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Livia Pomodoro: «Giudizi difficili in una società frammentata»

di Giovanni Negri

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18 Settembre 2008

Livia Pomodoro, unica donna alla guida di uno dei grandi tribunali italiani, quello di Milano, osserva da un punto di vista «faticoso e privilegiato», con alle spalle un'esperienza storica al tribunale dei minori, il difficile rapporto tra regola giuridica e pratica quotidiana.

Presidente, il suo intervento al Festival del diritto ha un titolo apparentemente bizzarro, «L'arte di giudicare». Un inno alla creatività della giurisprudenza?

Non solo. Ho pensato a questo titolo perchè il magistrato si trova a muoversi in un sempre più difficile equilibrio cercando di adattare il diritto a una realtà in continua evoluzione. In altri momenti, penso per esempio alla riforma del diritto di famiglia, il giurista, e in questa accezione vorrei comprendere il legislatore e il suo interprete, è stato in grado di anticipare il costume sociale e, in parte, di contribuire a crearlo. Oggi non è più così e il diritto italiano appare sempre più asfittico e in difficoltà.

Non si tratta, però, anche dell'esito logico dell'impossibilità di creare un consenso ampio intorno a un nucleo essenziale di regole?

Certo è anche così. La condivisione della regola diventa sempre più ardua in una società complessa, e naturalmente non è un problema solo nostro, all'interno della quale ciascuno rivendica sempre e solo diritti e mai doveri. Si va alla ricerca di un privilegio individuale dimenticando che una "buona" società è quella dove si condivide. Non in senso assembleare, ma dove anche il diritto è sentito come patrimonio comune. Ho fatto diverse esperienze come magistrato, ma ritengo che sia questo l'aspetto che il giudice deve tener presente nella sua attività. Accanto, mi faccia usare una parola dal sapore "antico", alla saggezza di chi è veramente in grado di interpretare il diritto per risolvere il conflitto.

Ma le sembra che la magistratura italiana sia in grado di coniugare la componente "artistica" con la saggezza dell'interprete?

Credo di sì. Nel corso del tempo i magistrati hanno affinato strumenti efficaci di applicazione del diritto. Naturalmente dovrebbe sempre essere presente la consapevolezza che quello che si sa è enormemente inferiore a quello che si dovrebbe sapere. La magistratura, però, non va dimenticato, ha svolto nel nostro Paese, in molte circostanze, una funzione di supplenza rispetto a regole incomplete o all'assenza di regole. Basti pensare ai conflitti sociali degli anni '70 e all'intervento della magistratura nel diritto del lavoro.

Allora il problema è quello della continua evoluzione del diritto?

Con qualche avvertenza, però. Nel nostro Paese c'è questa abitudine della continua correzione delle norme, della riforma della riforma, nell'aspirazione incessante a un meglio che è molto difficile raggiungere. Non si capisce che gli antidoti non vanno cercati solo nella modernità della regola, ma nel corpo sociale. Un esempio per farmi capire. Quello della sicurezza. L'aspirazione a sanzioni più aspre, più severe, che oggi sembra emergere con forza, porta in sè qualcosa di giusto, che è il desiderio della certezza della pena, ma anche qualcosa, a mio avviso di sbagliato. Non si può pensare, cioè, che sia la decisione del giudice il rimedio ai mali della società, oltretutto con tutta la sua parzialità, con la sua verità solo relativa.

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