La Cassa nazionale di previdenza e assistenza dottori commercialisti (Cnpadc) è nata nel 1963 come ente di diritto pubblico ma, sulla base del portato normativo del decreto legislativo 509/1994, si è trasformata nel 1995 in associazione di diritto privato, sua attuale veste giuridica.
Dal 1995, quindi, Cnpadc svolge la sua funzione di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, iscritti agli Albi professionali, e dei loro familiari, in autonomia organizzativa, gestionale e contabile, sotto la vigilanza dei ministeri del Lavoro e dell'Economia e senza usufruire di finanziamenti pubblici.
Il concetto di autonomia non è quindi quello della immaginifica zona franca da indirizzi e controlli (che, anzi, oggi si sostanziano in un complesso sistema), ma quello di una vigilata autosufficienza gestionale passa attraverso la capacità dell'ente di monitorare nel tempo gli equilibri strutturali e, se del caso, adottare provvedimenti regolamentari adeguati ad assicurare detta autosufficienza, anche nell'interesse degli iscritti a venire, sempre nel rispetto dell'adeguatezza della prestazioni.
In altre parole, per la Cassa dottori commercialisti la vera e significativa autonomia non è tout court quella formalmente garantita dal Dlgs 509/1994, ma è quella raggiunta e conquistata con i sacrifici dell'intera categoria, senza aiuti esterni, attraverso anni di gestione e provvedimenti oculati e previdenti, a partire dalla fondamentale riforma del 2004.
C'è però un paradosso tutto italiano.
A dispetto della pretesa tensione del legislatore e dell'asserito sentire comune nei confronti del necessario equilibrio degli enti previdenziali – talvolta tacciati di inerzia strategica rispetto al mutare delle dinamiche previdenziali ed economiche, con il conseguente rischio di maggiori futuri oneri sociali a carico del sistema – assistiamo ultimamente a un fenomeno di segno contrario: alle Casse di previdenza non si chiede "semplicemente" di pagare adeguate pensioni e prestare idonea assistenza senza "pesare" sul sistema, né – semplicemente – si chiede di contribuire al medesimo con il pagamento di rilevante (e doppia) imposizione.
Con l'inserimento quasi dieci anni or sono delle Casse professionali nell'elenco Istat delle Pubbliche amministrazioni (elenco la cui funzione sarebbe quella di individuare i soggetti i cui conti concorrono alla costruzione del Conto economico consolidato delle Amministrazione pubbliche) e grazie all'uso che di tale elenco il legislatore reiteratamente ha fatto e continua a fare, si sta imponendo alle Casse in via pressoché sistematica l'assoggettamento a normative pubbliche che talora si traducono addirittura in ulteriori riversamenti e pagamenti a vantaggio del sistema pubblico e a svantaggio delle platee previdenziali assistite.
Condizione comprensibile se le Casse vivessero di finanziamenti pubblici, ma che riesce francamente incongruente laddove le stesse si devono sostenere, per esplicita previsione normativa, in piena autonomia gestionale, senza costi per il sistema.
In questo senso – esemplificativa di quella che ormai appare una vera e propria deriva legislativa – è la recente applicazione alle Casse di previdenza della cosiddetta spending review, ancora una volta in forza di quella «capacità attrattiva» al sistema pubblico dovuta al citato elenco Istat, con la conseguenza che alle Casse vengono imposte «riduzioni di costi» (non sostenuti né finanziati dal sistema pubblico, e indipendentemente dalla loro coerenza gestionale), con obbligo di...versare allo Stato il differenziale forzosamente «risparmiato»...
E non è tutto. A quanto illustrato sopra si aggiunge infatti il confuso accatastamento di miopi interventi giurisprudenziali, spesso a protezione di diritti acquisiti e spesso con poca attenzione a quelli delle generazioni a venire, volti a limitare o depotenziare il potere degli enti di apportare quelle modifiche ai propri sistemi previdenziali finalizzate a garantirne la sostenibilità finanziaria nei termini imposti dal legislatore, con riforme, peraltro, sempre necessariamente approvate dai ministeri vigilanti con specifici decreti.
Schematizzando, quindi:
- il legislatore del 1994 – con intervento strutturale di politica economico/previdenziale – ha attribuito alle Casse un'autonomia regolamentare e operativa volta alla gestione della cosa previdenziale da parte delle medesime senza costi per il sistema pubblico e senza finanziamenti del medesimo;
- il legislatore di oggi, con interventi atomistici e di momento, legge come interessante area di contribuzione al sistema pubblico quell'autonomia ed il connesso e responsabile accumulo delle risorse necessarie a pagare le pensioni future (e non solo quelle di oggi);
- giurisprudenza non marginale sta interpretando l'autonomia normativo-regolamentare delle Casse come non pienamente legittimante ad interventi sui propri sistemi di regole, nemmeno nel rispetto del rapporto tra contributi pagati e prestazione pensionistica attesa, a prescindere dalle approvazioni e dai vagli ministeriali e dagli equilibri finanziari degli enti.
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