Quando si parla della previdenza privata dei professionisti occorre sgombrare il campo dai pregiudizi. Il patto che lega lo Stato con le Casse è così semplice che non può essere equivocato: lo Stato non dà contributi, le Casse devono essere autosufficienti e sono responsabili della copertura previdenziale degli iscritti. D'altra parte, lo Stato non può mettere le mani su patrimonio e risparmio degli enti, perché verrebbe lesa la tutela previdenziale per gli iscritti. Invece, dal legislatore sono arrivati messaggi contraddittori. Con la riforma delle pensioni c'è un richiamo, giusto, agli enti sulla necessità di garantire nel lungo periodo le pensioni. Con la spending review, c'è l'obbligo di risparmi, non da redistribuire agli iscritti, ma da riversare nell'indistinto salvadanaio dell'Erario.
Continua pagina 3
Con la spending review lo Stato sembra quasi dire: si può derogare alla responsabilità di garantire bilanci sostenibili nel lungo periodo; così come si può chiudere un occhio rispetto all'obiettivo di norme eque, per evitare che le nuove generazioni siano condannate a pagare le prestazioni generose dei loro colleghi anziani. Un messaggio equivoco, mentre sia nella previdenza privata come nella previdenza pubblica la riforma del 2011 ha cercato di imporre il concetto che la pensione è il frutto dei contributi, con una corrispondenza precisa, «tanto verso, tanto riceverò». Sul prelievo forzoso previsto dalla spending review le Casse attendono la decisione del Consiglio di Stato, che stabilirà se effettivamente gli enti di previdenza privati siano parte del circuito allargato delle pubbliche amministrazioni. Nell'attesa, sollecitano il ministero dell'Economia e – al di là del fondamento giuridico dell'obbligo e delle difficoltà applicative – un argomento può essere fatto valere: la responsabilità del legislatore a considerare il risparmio previdenziale intangibile. Il legislatore, d'altra parte, deve ripagare con la stessa moneta della responsabilità le Casse, che con il decreto legislativo 201/2011 sono state chiamate a dimostrare la sostenibilità dei bilanci a 50 anni. Può essere che l'approccio adottato con il decreto legge 201 sia stato un po' sbrigativo e semplicistico: all'inizio, per esempio, erano concessi appena tre mesi, poi con l'intervento anche del Parlamento i tempi si sono allungati e le Casse hanno avuto modo di definire, quando necessari, gli interventi di riforma. Molti enti sono stati obbligati a rivedere i requisiti per il pensionamento, a innalzare l'età per ottenere l'assegno, a rendere più restrittivi i parametri in base ai quali si calcola la prestazione previdenziale. Inarcassa, l'ente di ingegneri e architetti, è passata al metodo di calcolo contributivo delle pensioni. Il giudizio sulle riforme può anche essere articolato, ma l'impegno c'è stato. Ora occorre continuare sulla strada della responsabilità, nel segno del patto virtuoso tra Stato e Casse.
© RIPRODUZIONE RISERVATA