PECHINO - Sorridono le ginnaste cinesi dal podio più alto di Pechino. Sorridono perché si sono laureate campionesse nell'Olimpiade più importante nella storia del loro Paese. Sorridono perché la loro vita cambierà.
Per queste sei ragazzine la conquista dell'oro olimpico ha un significato particolare, che va ben oltre il compenso monetario e la notorietà del momento. In Cina l'ascesa al podio è qualcosa di ben diverso dall'effimero momento di gloria dei nostri arcieri o dei nostri lottatori. Qui chi vince (tutti, nessuno escluso) è consacrato all'onore eterno. Ed entra di diritto nell'empireo degli eroi nazionali: il che significa avere un futuro assicurato nella seconda esistenza di tutti gli atleti, quella che verrà dopo aver detto addio allo sport agonistico.
Ma la strada che porta al successo, alla posizione sociale e ai soldi è lunga e faticosa. Il sistema messo in piedi nei primi anni 80, quando sulla spinta delle riforme pro-mercato di Deng Xiaoping la Cina tornò alle Olimpiadi dopo 32 anni di assenza, è molto simile a quello adottato con successo a partire dagli 50 in Unione Sovietica e negli altri Paesi d'Oltrecortina.
È un sistema di tipo piramidale, gestito in parte dal ministero dell'Educazione e in parte da quello dello Sport. Alla base ci sono le scuole di quartiere dove i professori di educazione fisica compiono una prima selezione dei bambini dai 6 anni in su, sulla base di una serie di parametri: corporatura, attitudine, coordinazione fisica.
I giovani più promettenti vengono "promossi" nelle squadre distrettuali. Da questo stadio in poi, lo Stato inizia a farsi carico di tutti i bisogni dei giovani atleti: vitto, alloggio, studi, abbigliamento. Ogni embrione di campione costa allo Stato circa tremila euro l'anno.
I migliori studiano sempre di meno e si allenano sempre di più con l'obiettivo di diventare atleti di "interesse provinciale" (le Province in Cina sono grandi come una nazione europea). Quelli che non mantengono le promesse sono rispediti alle famiglie. Al termine di questa selezione darwiniana, chi dimostra di avere più volontà, determinazione, talento spicca il volo verso la punta della piramide: la squadra Nazionale.
Oggi nella fabbrica dei campioni del Dragone lavorano circa 23mila atleti. Quasi tutti si ritrovano a volteggiare alle parallele, a nuotare in una piscina, o a vogare su un lago, non per libero arbitrio, ma perché il sistema li ha "predestinati" quando non avevano ancora l'età per intendere e volere. «Per quasi dieci anni ho giocato a calcio senza divertirmi. Avrei preferito il basket, ma qualcun altro ha scelto per me. Ho iniziato ad amare il calcio solo dopo le Olimpiadi di Atlanta», racconta Gao Hong, ex portiere della nazionale femminile cinese di calcio.
Insomma, il motore dello sport cinese non è la passione, ma il reclutamento forzato di massa. Non s'inizia una disciplina per gioco, ma per cercare una promozione economica e sociale. Con tutto ciò che ne consegue. «Già su un atleta d'interesse provinciale la pressione diventa fortissima e molti giovani non riescono a sostenerla - prosegue Gao Hong -. Ricordo che alcune mie compagne di squadra furono assalite dalla nausea e smisero di giocare molto presto. Io ho tenuto duro e ho continuato a stare tra i pali per non disonorare la mia famiglia».
Per molti "predestinati" la strada verso la vittoria può trasformarsi in un terribile calvario. Lontani dalle famiglie, sradicati dai loro villaggi, costretti a una disciplina ferrea, questi ragazzi, spesso ancora adolescenti, sono costretti a una vita durissima fatta di allenamenti massacranti e di ripetizioni ossessive. La loro vita sociale è azzerata. Tra le mura dei centri sportivi, in cui vivono in uno stato di semi-isolamento per mesi interi, i promessi campioni scoprono subito la prima regola ferrea della fabbrica dello sport: chi si ferma è perduto.
L'uscita dal sistema per scarso rendimento, per mancanza di disciplina, o per infortunio, significa la fine di un sogno. Addio onore, gloria e soldi. Lo Stato sarà generoso con i futuri campioni, offrendo loro una carriera da imprenditori, da manager, da dipendenti pubblici, da militari, da politici. Ma sarà altrettanto spietato con i perdenti, perché a loro non toccherà più neppure un piatto di riso. «Quando sono uscita dal giro, nessuno ha più pensato a me. Ho dovuto studiare a mie spese per rifarmi una vita», spiega Ling Jiang, una giocatrice di calcio del Sichuan che negli anni 90 militava in una squadra di livello provinciale.
La gestione degli infortuni è forse l'aspetto più odioso della fabbrica dello sport. «È molto semplice: chi sta male e non ce la fa finisce fuori squadra, tanto c'è subito qualcuno pronto a sostituirlo - spiega Roberto Brogin, un tecnico italiano che in passato ha allenato le tenniste della nazionale -. Così, per paura di perdere il posto, nessuno dice di essere infortunato. Io, a suo tempo, ho avuto questo problema con la Zheng Jie: ho dovuta portarla dal dottore quasi di nascosto e poi, per convincere la Federazione a farla operare, ho dovuto sudare sette camicie».
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