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Dal Sudafrica una voce critica sul Mondiale: «Sarà una festa di pochi»

di Dario Ricci

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3 dicembre 2009

A Robben Island, lui, per le celebrazioni volute dalla Fifa, non è andato. Né si attaccherà al computer per comprare online qualche biglietto per qualche partita. Né si incollerà alla tv quando finalmente la Coppa del Mondo inizierà ufficialmente, il prossimo 11 giugno. C'è una democrazia da costruire, ci sono i bambini del suo centro di ricerche per l'infanzia da aiutare. E dire che Marcus Solomon è stato uno dei fondatori della Makana Football Association, la lega calcistica che i detenuti riuscirono a creare dopo una lunga trattativa con le autorità del carcere simbolo dell'apartheid. Sul campo di calcio della prigione si formò quella che sarebbe diventata l'elite politica del Sudafrica libero e democratico, a partire dall'attuale presidente Jacob Zuma. Ma lo sbarco della Coppa del Mondo, il sorteggio imminente, il mondo del calcio che guarda al Sudafrica come alla sua Terra Promessa, non scaldano il cuore di chi, come Solomon, non crede che il massimo evento del football potrà incidere sul futuro del Paese.

Signor Solomon, quando e perché venne condannato alla prigionia a Robben Island?

«Venni arrestato nel 1964, quando avevo 24 anni, e rilasciato dieci anni dopo, nell'aprile 1974. Le motivazioni del mio arresto? Le stesse di molti altri altri neri sudafricani che lottavano per la libertà contro l'apartheid – ci spiega Solomon al telefono dalla sede del suo Children's Resource Center alla periferia di Città del Capo - cospirazione e violenza contro lo Stato. Ero un prigioniero politico. Del resto in quegli anni nel Paese c'era una grande oppressione, ma anche una forte resistenza».

Eppure, anche in quelle condizioni estreme, fu possibile giocare a calcio persino in quell'isola, in quella prigione. Come riusciste, voi prigionieri, a rendere possibile quel miracolo?

«Fu una grande lotta. A Robben Island dovevi lottare per vederti riconosciuto anche il minimo diritto. Ci vollero quattro anni per vederci riconosciuta la possibilità di giocare a calcio. E la stessa lotta dovemmo farla per avere miglior cibo, miglior vestiario, per poter studiare. Passo dopo passo raggiungemmo il nostro obiettivo: giocare a calcio, e anche ad altri sport».

Qual era il significato politico di questa lotta?

«Giocare a calcio per noi voleva dire essere rispettati come uomini, non essere considerati dei sotto-uomini, dei prigionieri. La battaglia per il diritto allo sport era parte di quella più generale per la libertà, per i nostri diritti, per l'educazione, per il lavoro. Accadeva a Robben Island, ma era quello che stava accadendo nell'intero Paese».

L'organizzazione della Makana FA era incredibilmente complessa: nove squadre, tre diverse serie. Perché?

«Volevamo che tutti potessero giocare. Consideri che in prigione c'erano detenuti molto diversi fra loro: giovani di vent'anni e persone sulla cinquantina, abili calciatori e molti che non avevano mai tirato un calcio a un pallone in vita loro. Quindi bisognava essere ben organizzati, per garantire a tutti l'opportunità di giocare e di allenarsi. Così dividemmo i prigionieri in base a età e abilità».

E qual era il vostro rapporto con le guardie del carcere?

«All'inizio furono molto ostili all'idea che noi, prigionieri, neri, potessimo giocare a calcio! Ma più il tempo passava e più si rendevano conto delle nostre capacità nell'organizzare i campionati, e della nostra bravura nel gioco. E allora il rapporto tra noi e loro cominciò a migliorare costantemente».

C'è una partita, tra le tante giocate a Robben Island, che non dimenticherà mai?
(Marcus ride di gusto, n.d.r.) «Una sola? Tantissime!! Ma c'è n'è una che non dimenticherò mai. Un mio amico, che si chiamava Napoleone, fece gol con la mano… ha presente la "Mano di Dio" di Maradona contro l'Inghilterra nel 1986? Ecco, proprio allo stesso modo! Se ne accorsero tutti: i giocatori e i prigionieri e le guardie che stavano guardando la partita. Tutti, tranne l'arbitro! Quante risate! Altro che Thierry Henry contro l'Irlanda!».

La coppa del Mondo sta per arrivare. C'è una continuità, un collegamento tra quell'incredibile esperienza calcistica a Robben Island e il Sudafrica2010?

«Sì e no», risponde Salomon con disincanto. «A unirci è l'amore per il calcio, per lo sport, la sua importanza per l'educazione e la formazione dei giovani. Ma noi a Robben Island giocavamo a calcio per veder riconosciuti i diritti di tutti. Il Mondiale sarà invece la festa di pochi, sarà show business che non cambierà il destino dei poveri di questo Paese. Speriamo almeno che porti la gioia».

3 dicembre 2009
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