«Chi vincerà il SuperBowl? Philadelfia sta andando alla grande ed ha eliminato i campioni in carica dei New York Giants, ma sono innamorato della difesa di Pittsburgh, e allora forza Steelers!». Quella che gracchia nella cornetta del telefono, direttamente dall'università di California, Berkeley, non è certo la voce di Joe Montana o Tom Brady, miti del football a stelle e strisce. Ma la voce di Giorgio Tavecchio, per noi italiani alla scoperta dell'America, forse conta addirittura di più. Perché Giorgio, 18 anni, nato a Milano da papà comasco e mamma statunitense, è l'unico italiano («ho la doppia cittadinanza», precisa) a calcare i campi del fottball college, con la maglia di Berkeley. Il ruolo? "kicker", il calciatore, colui che "trasforma" le mete calciando il pallone tra i pali, o i calci d'inizio, o i "pant" al termine di ogni "drive" offensivo, o i "field goal".
Un ruolo delicato, Giorgio. Si sta parecchio in panchina e poi in campo con lo "special team": se fai il tuo dovere quasi non se ne accorge nessuno, se sbagli sono guai….come un portiere nel calcio, no?
«È vero! Bisogna allenarsi duro. E cerco anche di prepararmi mentalmente, riproducendo in allenamento le situazioni che possono capitarmi in partita. Quest'anno è andata bene (Giorgio ha calciato con una percentuale di realizzazione di circa il 70%, e i Cal Bears hanno vinto l'Emerald Bowl contro Miami, n.d.r.), l'allenatore dello special team Alamar è contento di me, anche il coach Tedford è felice, anche se con lui non parlo poi tanto: se segno mi fa i complimenti, ma quando sbaglio non la prende benissimo…».
Che rapporto hai con i tuoi coach?
«Splendido. Anche perché tutti siamo consapevoli che il football è un grande sogno, ma soprattutto un'opportunità per vestire la maglia e studiare in un'Università tanto prestigiosa come Berkeley. E allora quello che accade in campo è importante, ma tutti ci spingono a dare il meglio anche negli studi. E con Tedford è peggio prendere un brutto voto che sbagliare un field goal, credimi! Insomma, come capita spesso qui in America, lo sport può lanciarti nel mondo professionistico, ma è soprattutto una grande occasione per entrare all'università e costruirsi un futuro».
Magari si aspettava di trovare un italiano campione nel soccer, e invece eccolo con un buon kicker in squadra. Come sei stato accolto?
«Benissimo. Anche perché il campus di Berkeley è multietnico e liberale. Certo i compagni qualche volta mi prendono in giro, mi chiamano "pizza" o "mozzarella", ma è uno scherzo tra amici. Anche se ti confesso che il calcio mi manca, tutti giorni: seguo le partite della sera via satellite e faccio il tifo per la mia Inter!».
California, Berkeley, ambiente liberale e multiculturale. L'arrivo di Obama alla Casa Bianca non deve certo essere dispiaciuto, da quelle parti..
«Assolutamente no, anzi. Abbiamo bisogno di un cambiamento, e Obama può essere il presidente giusto. Certo, la crisi economica si fa sentire. La mia famiglia per fortuna non ha problemi, ma conosco molte persone che hanno perso il lavoro, o la casa».
I pensieri per il futuro non mancano. E i sogni? Sfonderai nell'Nfl o...
«Un passo alla volta. Sicuro il football mi piace, e proverò a dare il meglio, magari provando a giocare anche in Europa, anche se nel Vecchio Continente il "nostro" football non è molto popolare. Ma l'importante è fare bene all'università: devo ancora scegliere l'indirizzo definitivo dei miei studi, ma sarebbe bello laurearsi in relazioni internazionali!».
Cosa ti manca dell'Italia?
«San Siro: è uno spettacolo incredibile, un'emozione unica…e ti confesso un segreto: lo sai che una volta sono riuscito a entrare sul prato come giocatore di una squadra giovanile del Milan? Un bel colpo per un interista sfegatato come me, vero?».
