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United world of soccer: quando il calcio abbatte le barriere

di Dario Ricci

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2 luglio 2009



Clakston, Georgia, a una ventina di chilometri da Atlanta, fino al 1990 era una tipica e anonima cittadina del Sud degli Stati Uniti, abbastanza grande da avere una sua municipalità, un suo sindaco, e da essere considerata un sobborgo residenziale autonomo rispetto alla metropoli di cui pure sfiorava i confini. Ma nel 1990 Clakston viene designata dalle autorità statunitensi come centro di accoglienza per i rifugiati politici (oltre 1 milione in tutto il Paese da allora), divenendo così la prima dimora americana per innumerevoli famiglie in fuga dalle zone di guerra in tutto il mondo. Giovani dall'Africa, dall'Europa dell'Est, dall'Asia e dal Sud America, diversi per etnia, religione, cultura, hanno trovato nel pallone il linguaggio per dialogare insieme, e in un campo di calcio la loro casa comune.

United world of soccer - Perché a Clakston, dal giugno 2004, gioca la squadra dei Fugees (abbreviazione di Refugees, cioè "rifugiati"), fondata da Luma Mufleh, una ragazza giordana che ha studiato negli States e che ora è il boss e l'allenatore dei Fugees. Così, mentre nelle strade di Clakston bistecche e jeans stanno faticosamente imparando a convivere con chador e cumino, il calcio dei Fugees prova a convivere con i grandi sport "made in Usa" (in particolare col baseball, con cui si contende gli spazi nei parchi cittadini...), e i suoi giocatori cercano un'identità comune inseguendo i rimbalzi del pallone da soccer. Una storia, mille storie, ora raccolte in un libro, Rifugiati Football Club (ed. italiana a cura di Neri Pozza Editore), realizzato dal giornalista del New York Times Warren St. John.

Il sogno di Warren - «Appena li ho visti giocare per la prima volta, ho subito capito che quella dei Fugees non era solo una storia di sport e di calcio, ma era una metafora degli Stati Uniti di oggi. E non solo dell'America, ma di tutto il mondo occidentale. Per questo ho deciso di raccontarla», ci spiega St. John, in questi giorni in Italia per presentare il libro.

Come nasce l'idea di raccontare la storia dei Fugees?
«Come speso accade, è stato il caso a portarmi sulle loro tracce. Avevo preso parte alla presentazione di un mio altro libro ad Atlanta, e durante una cena ho incontrato un uomo che lavorava per il dipartimento americano che si occupa proprio di trovare adeguata sistemazione ai rifugiati politici. E' stato lui a parlarmi della squadra creata da Luma Mufleh a Clakston. Il giorno dopo ero già a a bordocampo a vedere un loro allenamento».

Ci sono innumerevoli racconti nella vita di ognuno dei calciatori/rifugiati che vestono la maglia dei Fugees. Quale ti ha colpito in particolare?
«Quella di un donna, una madre, fuggita con tutta la sua famiglia da Monrovia, dalla Liberia, durante la guerra civile che portò alla caduta del regime dittatoriale di Taylor. Le hanno ucciso il marito sotto gli occhi, lei ha preso i figli ed è scappata di notte in un campo profughi oltreconfine, dove vivono in una capanna di fango per cinque anni. Poi ottengono finalmente il via libera per trasferirsi negli Stati Uniti, e lei trova un lavoro come inserviente in un hotel. Ma la prima sera che, dopo una dura giornata di lavoro, scende dal bus e sta tornando nella sua nuova casa a Clakston, dove l'aspettano i figli, viene rapinata di tutte le poche cose e i soldi che aveva con sé. A molte di queste persone la vita non solo non ha regalato niente, ma neppure fatto sconti».

Credi che il calcio abbia avuto un ruolo specifico nel piccolo miracolo rappresentato dai Fugees?
«È stato proprio il calcio a creare questa piccola magia, perché é la passione comune a tutti questi ragazzi, inizialmente divisi da cultura, etnia, religione. A Clakston il calcio apparve all'improvviso, nelle prime partitelle tra ragazzi bosniaci, iracheni, liberiani nei parcheggi della città. Da lì sono nati i Fugees».

Come sta cambiando la società multietnica americana sotto l'influenza della rivoluzionaria presidenza di Barack Obama?
«Difficile dirlo, è presto per valutare l'operato di Obama. Ma è chiaro che la storia dei Fugees rappresenta contemporaneamente il meglio e il peggio che l'America può offrire: è una storia di speranza, ma anche di razzismo e xenofobia, che ancora sopravvivono, purtroppo. Devo però dire che, per fortuna, gli Stati Uniti hanno scelto la strada della speranza. In altri tempi, forse, i Fugees non sarebbero potuti esistere. Ma oggi la loro stessa esistenza è un segno di speranza».

In Italia si discute ancora sul presente, e il futuro, della società multietnica. Cosa pensi di questo dibattito? Qual è la lezione che arriva dall'esperienza dei Fugees?
«Seguo da vicino questo dibattito, e anche in America è molto vivo: basti pensare alle polemiche sull'immigrazione clandestina dal Messico. La storia dei Fugees ci offre speranza, ma anche modelli pratici su come superare differenze e diffidenze culturali, etniche e religiose. Non possiamo chiedere alla persone di vivere fianco a fianco senza creare occasioni d'incontro, di condivisione, di dialogo e confronto. Lo sport offre queste occasioni, ma anche la religione, il commercio, il cibo, la musica. I Fugees ci insegnano che dobbiamo lavorare per creare queste occasioni, e per saperle riconoscere nella realtà di tutti i giorni. Il nostro mondo sta cambiando: riconoscere il cambiamento, senza negarlo, è già un modo di affrontarlo».

2 luglio 2009
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