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La prima volta di un italiano in Nascar

di Dario Ricci

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Max Papis

Il contrasto non potrebbe essere più stridente, inutile negarlo. Nei giorni in cui i vertici dell'industria automobilistica americana – General Motors, Chrysler, Ford – vanno con il cappello in mano in audizione a Senato e Camera statunitensi a chiedere sovvenzioni miliardarie per sopravvivere alla crisi economica, il campionato Nascar (National Association for Stock Car Auto Racing), la serie motoristica più amata dagli appassionati a stelle e strisce, celebra il terzo titolo consecutivo vinto dall'idolo Jimmie Johnson, un tris che consente a "JJ" di eguagliare l'impresa del leggendario Cale Yarborough, grazie al 15esimo posto ottenuto domenica scorsa nella gara conclusiva nell'Homestead-Miami Speedway.

Passione nazionale – Nomi, protagonisti, circuiti, che magari in Europa sono pressoché sconosciuti (se non per una ristretta cerchia di cultori del genere), ma che in America sono luoghi e personaggi venerati da migliaia di fan. «A ogni gara ci sono almeno 350mila tifosi che vengono a vederci», ci racconta da Charlotte Massimiliano Papis, che a 39 anni, dopo una lunga esperienza in quasi tutte le classi motoristiche, compresa la Formula Uno, dal 2009 sarà il primo pilota italiano alla guida di una vettura nel campionato Nascar. Il varesino – dal '95 nel mondo dei motori a stelle e strisce - guiderà una Toyota del team Germain Racing. Contratto di 4 anni e sponsorizzazione della Geico, colosso assicurativo di Warren Buffet, multimiliardario e socio del creatore di Microsoft Bill Gates nelle sue iniziative benefiche.

Professionismo e tecnologia - «È come se Paolo Maldini fosse chiamato a giocare con i San Francisco 49ers!». Così Papis spiega il rapporto che c'è tra Formula Uno e Nascar, ma anche, in termini di popolarità, quello tra pubblico e stock car in America. «Siamo secondi solo al football americano – chiarisce il varesino, che per 4 stagioni è stato test-driver proprio nel team di Jimmie Johnson – e abbiamo superato la Indycar, in declino negli ultimi 5 anni. Guidiamo auto da 900 cavalli su 36 circuiti – 33 ovali e 3 stradali -; 43 macchine alla partenza per gare di 500-600 miglia e di 4-5 ore, con grande equilibrio ed estenuante attenzione al particolare. Un esempio? Nel mio team ci sono 560 dipendenti; abbiamo 3 aerei privati da 50 posti per trasportare le persone che vanno in pista. E i meccanici che prendono parte ai pit stop sono solo 6: si allenano in palestra ogni giorno, vengono selezionati di volta in volta in base al loro stato di forma e posizionati in un punto specifico – ad esempio, a sostituire la ruota anteriore destra, o la posteriore sinistra - in base all'analisi di prestazioni e attitudini!». Roba che fa arrossire, se si ripensa al bocchettone del rifornimento che la Ferrari di Massa si trascinò dietro dai box nell'ultimo Gp di Singapore...

A paddock aperto – «Ogni fine settimana di gara dobbiamo dedicare, da regolamento, almeno un'ora ai nostri fans», racconta ancora Papis. «E allora apriamo paddock e garage e passiamo il tempo a chiacchierare, firmare autografi, far vedere le vetture, fare foto con gli appassionati. Pensa che proprio in questi giorni ho fatto una foto con un tifoso che mi segue da dieci anni: ne avevamo fatta una nel 1998, e ora ne ha voluta un'altra, aggiornata! In questo rapporto con i fans la Nascar è simile alla MotoGp. Mi sembra invece che i piloti della Formula Uno siano troppo lontani dai loro supporters».

Antidoto alla crisi – Grande interesse, passione, tifosi in delirio. Ma la Nascar, figlia diretta dell'industria motoristica Usa, non poteva sfuggire alla crisi che attanaglia Detroit e dintorni. Per contenere i costi, i team hanno deciso di tagliare tutti i test privati nel 2009. Scelta che farà risparmiare circa un milione e mezzo di dollari a ogni squadra. Non poco, se si pensa che il budget di ogni team è circa 10-12 milioni di dollari all'anno, e che sono già quasi un migliaio gli addetti del settore che hanno perso il lavoro nelle ultime settimane. «Ma il modello di business della Nascar è un efficace antidoto alla crisi – chiarisce Papis -: i budget sono ben calibrati, i premi sono pubblici e distribuiti proporzionalmente dal primo all'ultimo classificato, e poi suddivisi tra tutti i componenti della squadra, dal pilota all'ultimo meccanico. E bisogna tener conto anche della fidelizzazione tra marchi pubblicitari e spettatori: sponsorizzare una vettura Nascar vuol dire entrare nelle case di milioni di americani, e avere una visibilità di primo piano sul mercato interno dei consumi».

Modello da imitare – Ma insomma, Max, questo modello Nascar sarebbe esportabile in Formula Uno? «Ma è quello che sta già accadendo! Basti pensare ad alcune novità introdotte nel circus europeo, come la safety car, o le bandiere gialle di segnalazione dei pericoli, importate proprio dalla Nascar! Siamo noi europei che abbiamo una mentalità troppo fossilizzata sulla Formula Uno. La Nascar è già arrivata in Canada, in Messico: sarebbe felicissima di uscire anche dai confini del continente americano!».

  CONTINUA ...»

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