La nuova sfida, per il Made in Italy, è fatta di mentalità e visione. Guardare oltre la dimensione locale, ai mercati globali, senza rinunciare ai tratti tipicamente italiani. Con ottimismo e visione strategica. I prodotti che esportiamo in tutto il mondo non fanno soltanto parte della moda, le calzature e l'agroalimentare. C'è un tessuto produttivo "nascosto" fatto di tradizione, qualità e tanta tecnologia. L'Ice, insieme a Federmacchine e il Politecnico di Milano, ha premiato una quarantina di laureandi tra i venti e i ventidue anni - indiani, brasiliani, canadesi e statunitensi - con gli Italian technology awards, portandoli a vedere le migliori aziende che producono macchine utensili e nelle università. Nella serata conclusiva dell'iniziativa è stato presentato il volume «The Italian Edge. Technology for Excellence», realizzato da Nòva24, inserto di ricerca, innovazione e creatività del Sole 24 Ore, che racconta il lato nascosto del made in Italy partendo dalla miriadi di piccole imprese d'eccellenza che si nascono dietro i grandi marchi.
L'Italia può dire la sua se abbandona «la peculiarità di parlare male di se stessa» valorizzando «il senso estestico e la qualità» di prodotti che sono «conosciuti e apprezzati in tutto il mondo» ha spiegato Umberto Vattani, presidente di Ice. Per Vattani il nuovo miracolo economico italiano è fatto da aziende di medie dimensioni con «una capacità decisionale rapida e flessibile che non rinuncia a presidiare i mercati più importanti».
«La chimica è il vero turbo del Made in Italy - ha detto Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica - è alla base di una infinità di prodotti: tessuti, pellame e materie plastiche». Si sa, l'Italia «non ha materie prime, l'energia costa il 30% in più rispetto agli altri paesi europei e le infrastrutture vanno modernizzate», ma «abbiamo qualcosa in più degli altri, la materia grigia dei nostri ricercatori. Sulle nanotecnologie e il biotech ci sono stati buoni risultati e abbiamo di fronte una grande opportunità». Sul tema dei talenti il rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio, ha detto che «i nostri giovani hanno molta voglia di crescere e conquistare pezzi di società», semmai la peculiarità italiana sono le dimensioni. «In dieci anni abbiamo incubato una settantina di imprese. Ci siamo accorti che negli anni tendono a rimanere piccole, raggiunto il break even sono soddisfatte». Perchè? «Credo sia un po' una vocazione - risponde Ballio - e un po' dovuto al fatto che il mondo italiano dell'innovazione resta limitato, per questo abbiamo stretto accordi con la Silicon Valley e altri mercati più grandi».
Squinzi ha sottolineato le difficoltà che incontra chi vuole fare impresa in Italia, per via di «tanti condizionamenti e complicazioni. Il nanismo delle imprese, secondo Alberto Sacchi, presidente di Federmacchine, «nasce molto spesso dall'abitudine a operare in ambito locale. Bisogna guardare al mondo intero e costruire il futuro con una visione ottimistica».