Chris ha le carte in regola. Ha deciso di abbandonare il tennis professionistico perché è stanco di una vita randagia, senza un vero scopo. Ancora molto giovane, sbarca a Londra dalla natìa Irlanda, progettando di trovare la sua strada. Un ragazzo come tanti, quello scelto da Woody Allen per Match Point, convinto che un colpo di fortuna (la palla che rimbalza sulla rete e, dopo un attimo di suspense, forse cade dalla parte giusta...) possa cambiare la vita. Per portare a casa qualche soldo inizia a dare lezioni proprio di tennis, l'unica cosa che per il momento sa fare a dovere. Un po' di sterline, giusto per tirare avanti, e la possibilità di conoscere gente interessante. Come Tom, rampollo di una ricchissima famiglia. Simpatico, sincero, desideroso di aprire a Chris le porte del mondo che contano. E Chris, che ama tanto leggere Dostoevskij, si lascia condurre, affacciandosi in un universo dorato che non conosce, e che non può mancare di affascinarlo. Niente di male, niente droga o sesso facile. Anzi, la più tranquilla delle routine, accompagnata addirittura da una fresca, allettante storia d'amore con Chloe, la sorella di Tom. Ma è solo l'inizio di una discesa agli inferi: difficile, forse impossibile abbandonare il nuovo ambiente dopo che si è entrati, per caso, a farne parte. E allora, come conciliare tutto ciò con il desiderio sfrenato che suscita già al primo sguardo la fidanzata di Tom, la disinibita americanina Nola? Ma attenzione, Allen non ci conduce all'interno di una banale storia di seduzioni, tradimenti, pianti e riconciliazioni. Ricordate quale autore amava leggere Chris? Siamo dalle parti di Crimini e misfatti, non di Provaci ancora, Sam: lo sguardo del regista, servito da una regia forse mai così impeccabile e "matura" e accompagnato da struggenti arie d'opera, osserva impietrito il dipanarsi di una tragedia senza tempo. (Luigi Paini)C'è il delitto, ma non il castigo: così si chiude Match Point (Gran Bretagna e Lussemburgo, 2005, 124'). Chris (Jonathan Rhys-Meyers) è stato fortunato. Il caso gli ha fatto vincere la partita della vita. Ora l'attende un futuro «in cima al mondo», e non dovrà preoccuparsi del fucile che ha rimesso a posto, tra i molti del ricco suocero Alec (Brian Cox). Eppure, nell'ultima inquadratura la macchina da presa cerca sul suo volto un cenno d'angoscia, un'ombra che la "fortuna" non rischiara. Colpa e caso sono i temi conduttori di questa storia d'ordinaria corruzione. Come in Crimini e misfatti (1989), nessun occhio superiore garantisce la moralità del mondo. Non è cinica, la prospettiva di Woody Allen, ma è saggiamente disincantata. Gli uomini e le donne si amano, si odiano, si sposano, si tradiscono, investono in Borsa, vanno a caccia di pernici, magari leggono Fëdor Dostoevskij: e tutto è indifferente, senza che valgano merito o demerito, giustizia o ingiustizia. È questo il tragico della nostra condizione, sostiene Chris, che appunto legge Delitto e castigo. E tuttavia la disperazione è la soluzione più facile, gli obietta Tom (Matthew Goode), ripetendo con la sua spensierata banalità da figlio di papà le parole d'un prete. Ma l'altro - che si è appena «tirato fuori» dalla miseria, per dirla con Alec -, l'altro dunque gli ribatte che è la fede la soluzione più facile. Pare infatti che il giovane maestro di tennis prenda sul serio Raskolnikov, l'altrettanto giovane filosofo-assassino di Dostoevskij. Di fronte al vuoto di senso della vita, rifiuta - così sembra - la scorciatoia di un assoluto illusorio, preferendogli la sofferenza viva della consapevolezza. Poi, certo, può anche succedere che la pallina urti la rete, e che il caso la spinga dall'altra parte del campo. E però Chris non è tanto legato a Dostoevskij da imitare davvero la tragicità dei suoi personaggi. Come già gli è accaduto sui campi da gioco, suppone che non valga la pena di faticare, di mettersi in rischio. Per lui non ci sarà alcuna vecchia signora da uccidere, non ci sarà alcun delitto che testimoni d'una qualche superiorità. Più pigro che nichilista, rimane in attesa della fortuna. Nel frattempo, coltiva buone letture, e buone compagnie. Per tutto il film Allen gli sta addosso. Lo osserva nella disponibilità innocente con cui regge la sua partita, e non lo giudica (non lo può, saggio e disincantato com'è). Non bara, Chris, ma neppure s'impegna davvero. Solo, rimanda la palla al di là della rete, con mestiere ed eleganza. Certo, non è del tutto elegante, il suo mestiere, quando accetta l'aiuto di Alec, che per amore della figlia gli spalanca una carriera insperata. Ma che male c'è ad approfittare appena un po' delle circostanze? Neppure Raskolnikov si tirerebbe indietro. Inoltre, Chloe (Emily Mortimer) è dolce, non è solo ricca. Meriterà bene che ci si dimentichi che è anche noiosa. Nola (Scarlett Johansson) non è dolce, invece. Ma è sensuale, e nient'affatto banale. Purtroppo è anche povera. E non conta quel che ne penserebbe Raskolnikov. Ormai Chris non ha più interesse alla sua filosofia tormentata, se mai ne ha avuto. Un po' alla volta, s'è lasciato convincere dalla filosofia opposta di Alec, e del suo denaro. Un po' alla volta s'è lasciato corrompere, appunto, e s'è affidato del tutto alla sua spontanea, vecchia pigrizia. D'altra parte, può averle entrambe, la ricchezza di Chloe e la sensualità di Nola. Per quanto la vita sia tragica, almeno questo è sicuro. È una storia di ordinaria corruzione umana, appunto, quella che Allen racconta. Il suo film è dostoevskiano, ma solo "per caso". Chris invecchierebbe senza mai più conoscere la disperazione e la consapevolezza che una volta gli erano care, se solo Nola non diventasse un disturbo, un intralcio pericoloso. Solo per questo, infatti, il maestro di tennis imita Raskolnikov. O meglio, solo per questo ne mette in atto la filosofia, capovolgendola. Uccide, dunque, ma non vuole dimostrare alcunché. Quello che gli preme è il suo egoismo immediato, concreto. Non è un demone né un demonio, ma solo un criminale. Quanto alla colpa, se ne disfa pretendendo d'aver agito per un "valore": piccolo e stupido, ma assoluto. Se poi serve, a sostegno della sua nuova fede è pronto a citare Sofocle («Meglio di ogni cosa è non essere nati»), con una volgarità morale che Raskolnikov neppure immagina. C'è il delitto, e non ci sarà il castigo, dunque. Così decide il caso. Ma la partita non è finita. Non lo è nel senso che Chris sa. La vita gli sarà facile, ma un'ombra d'angoscia l'appesantirà, forse. Oltre questo "forse" Allen non va. È troppo saggio e disincantato, per farlo.