Non so se sia un bene o un male parlare di un libro come questo, a caldo. Ma forse il problema si ripropone anche qualora lo si voglia far decantare, perché Nati due volte è un'opera che ti lavora dentro, capace al tempo stesso di riaprire delle ferite e rimarginarne altre. Di sicuro l'attesa aiuta a far prevalere, tramite la decantazione, ciò che questo libro può e vuole anche dire, quanto a contenuti: ma come conseguenza delle sue ragioni primarie. Che sono le ragioni della letteratura. E che sono quelle ragioni per cui ciò di cui si narra resta, e non vola via con le solite pietistiche chiacchiere giornalistiche.
Questo perché Nati due volte è un romanzo: singolare, complesso, accurato nella costruzione strutturale e nel dispiegamento del linguaggio, quanto vuole e riesce ad esserlo grazie a una scrittura che gioca contemporaneamente in offesa e difesa: in cui tra pudore e rimozione il braccio di ferro è di difficile e però sempre ben tenuto equilibrio.
E le spie sono lì. In due aspetti lampanti. Nel fatto che, ad esempio, una volta escluso il lemma economico "cosa", il sostantivo che vanta il maggior numero di presenze nel libro è proprio il nome del figlio, "Paolo": aspetto in sé naturale, non fosse che nella lettura non te ne accorgi, tanta è la cura nel diluirne la "nominazione". E, poi (il secondo aspetto), nel capitolo narrativamente conclusivo, con in scena il suocero. Un capitolo che, confesso, m'ha in prima istanza disorientato: perché pur in un libro costruito a fisarmonica tra racconto diretto e racconto-divagazione a recuperare quelle particolari situazioni che ora accolgono e ora fagocitano con impassibile burocraticità il disabile (e tale è Paolo, affetto da tetraparesi spastica distonica: seguito nel suo crescere in ambienti anche variamente scolastici e medici), quel capitolo incentrato sul suocero mi appariva troppo fuori scena per non ritenerlo non voluto e non intento a designare altro (ciò che invece non direi della figura di Alfredo, il fratello maggiore di Paolo: che invece continua a suonarmi debole e poco coinvolta, narrativamente isolata, quasi da componente necessaria a ricostruire una possibile tipologia familiare). E la ragione della presenza di quel capitolo non tardava poi a emergere: lentamente, quale volontà di pudica dizione; un capitolo quasi da coro manzoniano, da "cantuccio", come peraltro mi pare confermare la sua stessa posizione nell'economia del romanzo. Perché lì, seguendo la graduale perdita di autonomia del suocero, ti accorgi che sotto le parole pronunciate trasversalmente alligna una domanda dolorosamente inespressa e però sempre più cogente; la più lancinante, in realtà; la domanda del "poi"; del "domani"; che trova infine la sua formulazione nella dolorosa e drammatica domanda-risposta che esplode quasi con catartica grazia (o "tetra bravura" come scrive l'autore), nelle parole di Paolo, a siglare il capitolo: <il problema è che cosa mi aspetta>. A dire, insomma, di un capitolo-metafora: ricco come tale anche di rifrazione sul sé del padre, giovane insegnante spaesato nell'inseguire l'erronea soluzione della possibile normalità (altrui) anziché la propria interiore ricchezza.
E però, proprio nel renderti conto che Paolo è la figura principale, capisci anche che il protagonista del libro non è lui, ma il padre. Cui spetta il ruolo di io narrante necessariamente riflesso su se stesso per la impossibilità di entrare nella testa continuamente sorprendente e spiazzante, ingovernabile perché capace di autonomia, del figlio. É il padre che attraverso il figlio fa i conti con se stesso, ripensandosi nei vari e quanto mai concreti rapporti che la disabilità impone: volente o nolente (per lui e per te). Un padre che attraverso racconti, aneddoti, riflessioni, incontri affidati a una scrittura mobilissima che per ogni situazione sa individuare non solo la varia lunghezza dei capitoli ma soprattutto il tono e il registro - ora comico e ora grottesco, ora affettuoso e ora ironico, ora rabbioso e ora drammatico -, a sua volta <nasce una seconda volta>: nel superamento del senso, se non addirittura della convinzione, di impreparazione alla realtà dell'handicap.
Rinasce attraverso lo sguardo-specchio dell'interiorità: verso il figlio, <assistendo> alla sua capacità di nascere <una seconda volta> al mondo. Verso la moglie. Verso gli altri, il mondo stesso, sempre attraverso il figlio. E la crescita del padre è proprio lì: diluita nelle parole. In una scansione asciutta e insieme delicata, che per tale via assorbe sempre con levità la dizione gnomica ormai usuale in Pontiggia. Una scansione attenta ad assegnare agli aggettivi la connotazione psicologica. Un dizionario, infine, che Pontiggia utilizza orizzontalmente più che verticalmente: in cui le frequenze si tengono basse proprio per la dovizia di lessico (secondo una vera e propria ossessione della e per la parola che nulla deve lasciare nel vago e anzi fonte di riscoperta e di rilancio del senso); e che però ti porta sempre nel campo dell'interrogazione e del dubbio, ove alle semplici frequenze sostituisci la costruzione del campo onomasiologico.
Perché allora, a una analisi minuta per quanto veloce, ti accorgi che a prevalere è un lessico che attinge molto al campo del dubbio (ma, se, però, quasi, forse, magari), dell'interrogazione (le tante domande, i perché a prevalenza interrogativi e non invece causali), del mancamento (l'universo della negazione: non, né, no, negare, nessuno, niente), quest'ultimo però presente non come accettazione di una condizione, ma spessissimo come ostacolo da superare. Un lessico però di cifra reattiva (come quello della madre Franca) e anche creativa (Paolo), che coinvolge un padre caratterizzato spesso da lemmi come rispondo e annuisco. E ancora una volta la spia è lì: nella povertà dei campi onomasiologici sia della rassegnazione che della miracolistica speranza. Proprio perché racconto d'una graduale rinascita verso la coscienza. Nel passaggio - si potrebbe persino dire - dall'universo del parlare, che è quello dei genitori e degli altri, alla dimensione dello sguardo. Degli occhi di Paolo. Il suo vero, coraggioso, stimolante, muto linguaggio.
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