Dopo un quarto di secolo al servizio di una nobile ossessione, e cioè la letteratura - ma in frequente dissidio con quella tirannia della virtù che gli europei chiamano astoricamente <puritanesimo americano> e che nella città murata del conformismo si definisce invece come l'insieme dei <valori irrinunciabili dell'America> -, Nathan Zuckerman porta a termine con fatica un ultimo formidabile romanzo e poi fa dire a Philip Roth, in un'intervista dello scorso anno, che è arrivato il momento di smettere. É ormai vecchio, Zuckerman, e da tempo si è ritirato sulle Berkshire Hills. Ha subito una grave operazione alla prostata, soffre di incontinenza e si sente umiliato dal proprio corpo che non risponde più a certi stimoli.
Non fosse stato costretto dalle circostanze - e cioè dal fatto che il protagonista, Coleman Silk, ex professore universitario, sia andato espressamente da lui per chiedergli di scrivere la storia della intollerabile offesa inflittagli dal furore ideologico dei suoi ex colleghi -, La macchia umana (Einaudi) non sarebbe mai stata scritta. La trilogia sul secondo dopoguerra - iniziata con Pastorale americana, ambientata negli anni del maccartismo, e proseguita con Ho sposato un comunista sullo sfondo della guerra in Vietnam - non sarebbe forse mai stata completata. Forse.
Ma, forse - invece -, il libro sarebbe stato semplicemente scritto in un altro modo. E c'è più di un motivo per crederlo. Tanto per cominciare, e il lettore che conosce l'opera di Roth lo sa bene, perché Nathan Zuckerman non è mai esistito: è solo uno pseudonimo o, meglio, uno pseudo-alter-ego di cui Roth si è spesso servito per mediare, filtrare e fingere di non intromettersi personalmente nelle storie che raccontava. E poi perché abbiamo la prova provata che Philip Roth, l'autore dei romanzi che avevano come autore Zuckerman, non ha mai avuto alcuna intenzione di smettere. É uscito infatti in queste settimane, contemporaneamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, un suo nuovo romanzo. The Dying Animal, che lo stesso Roth - a sua volta molto malandato: 5 bypass al cuore e la depressione sempre in agguato - ha fatto raccontare da un subalterno di Zuckerman. E, cioè, da quel professor Kepesh che anni fa (1977) aveva sfidato sul terreno delle trasformazioni i suoi maestri Franz Kafka e Nikolai Gogol, ed era letteralmente diventato - non un insetto e non un naso - ma una tonda mammella. Insomma un ritorno a un'antica passione.
La macchia umana è un punto d'arrivo importante nella carriera di Roth, e non solo perché è pensato dalla speciale prospettiva di un uomo che è vicino alla fine. É una riflessione sulla realtà spirituale, sempre misconosciuta, delle esistenze comuni - invisibili o segrete - rispetto alle illusioni delle grandi idee, ed è una delle sue opere maggiori. Diciamo subito che non è un libro particolarmente brillante nella scrittura ma che è magistrale nel dare l'impressione di essere messo insieme da una mano qualche volta incerta e malferma. Come se fosse il frutto non di una spavalda ambizione - che vuole stupire - ma di una insopprimibile ossessione: quella di voler conoscere la verità al fondo del cuore umano, e la verità - più superficiale - a cui si arriva indagando con pazienza sui fatti e sulle testimonianze. Non rivelerò fino a che punto riesca ad arrivare il vecchio Zuckerman con il poco fiato che gli resta in corpo, ma voglio precisare che La macchia umana è un romanzo di facile lettura e dalle difficili, ambigue risposte.
É un libro di impalpabile sottigliezza. E non perché sia intessuto con i fili di ragno di una prosa estenuata o con i fili d'oro della prosa d'arte. Ma piuttosto perché, nel gioco delle parti, presenta sempre un margine sfumato nelle motivazioni di ciascuno dei personaggi, superficialmente contrapposti come buoni e cattivi, e rimanda, senza fine, a domande che chiamano altre domande, senza strepito e senza furore. E però con la convinzione che la letteratura sia l'approssimazione più attendibile alla verità delle cose. Anche se - bisogna prenderne atto - la risposta vera a tutte le domande è il testo stesso che quelle domande presenta. É nella gerarchia morale dei suoi personaggi. Al pari di Orazio nell'Amleto e di Ismaele in Moby Dick, il povero Zuckerman sopravvive ai protagonisti e ne tramanda la memoria. Ci dà la sua versione dei fatti. Ma non arriva a fornirci le prove. E quel diavolo di Roth si guarda bene dall'intervenire di persona per ovviare a certe lacune. Il libro finisce e, a quel punto, inizia nella testa del lettore un balletto di ipotesi sulla vera meccanica della morte dei protagonisti. Ma subito tutto si acquieta. Perché, davvero, non è lì che si nasconde il senso della vicenda.
La macchia umana è un libro che nasce dall'ira senile di un uomo, Coleman Silk, accusato di razzismo e costretto a lasciare anzitempo il college dove è preside da molti anni per avere usato, senza volerlo, un'espressione ambigua nei confronti di un paio di studenti assenteisti. Coleman è ebreo e gli studenti sono afroamericani. Lo scandalo fa morire di crepacuore la moglie di lui, Iris, e pone termine alla carriera di un professore di lettere classiche che aveva lasciato il segno nell'istituzione e che, paradossalmente, era stato il primo ad assumere, anni addietro, insegnanti di colore. Coleman diventa l'amante di una donna delle pulizie che si chiama Faunia (<Voluptas> ai suoi occhi vivificati dall'uso del viagra) e quando la notizia arriva alle orecchie dei figli e, peggio ancora, di una raffinata e giovane francese che è diventata il nuovo capo del dipartimento di lingue, qualcosa va tragicamente storto. A Coleman arriva una lettera anonima che dice: <Tutti sanno che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni>.
CONTINUA ...»