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Che colpa l'imperfezione

di Benedetta Bini

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17 febbraio 2002

<Atonement> è in inglese parola alta e solenne, dalle risonanze inevitabilmente bibliche e dalle molteplici sfumature di senso: espiazione, come recita il titolo italiano, ma anche "penitenza, ammenda", e soprattutto "redenzione". Scandita in tre parti, l'architettura dell'ultimo romanzo di Ian McEwan si costruisce tutta intorno a questo complesso nucleo centrale: da una colpa che si riverbera su tutti i protagonisti della storia, segnandone il destino, e dall'accendersi di quel desiderio di redenzione che guiderà la protagonista per il resto della sua vita.
Questo però non è il movimento iniziale quanto piuttosto il fuoco prospettico della prima, ampia volta del romanzo: che il lettore è invitato a contemplare, ammaliato dalla voce di un narratore che è simultaneamente dentro e fuori la storia, e che con mano sicura ricostruisce, intorno allo scenario ambiguo di un episodio lontano, l'entrare e uscire dei personaggi dalla scena, il fascino degli spazi chiusi, la magia sinistra dei luoghi naturali, il gioco dei corpi e delle passioni, la verità dei dialoghi, i conflitti che agitano la superficie apparentemente armoniosa di una famiglia upper class in una calda giornata dell'estate del 1935, in una grande e non bella magione della campagna inglese.
Ha un respiro ampio, questo romanzo che copre l'arco di mezzo secolo, e inevitabilmente rimanda alla nobile tradizione che ha alle spalle. Fin dal l'epigrafe Espiazione ci consegna, limpidamente e fuori dai vecchi trucchi metanarrativi, la memoria del Grande Romanzo, senza che ciò diventi banale riscrittura e senza togliere niente al fascino della storia e allo stile inconfondibile di McEwan, qui particolarmente duttile, ricco e lucido. Qualcosa avviene sotto gli occhi del lettore, senza che egli se ne renda conto, nel momento stesso in cui lo sguardo si deposita sulla pagina: dal lontano Cortesie per gli ospiti fino a Bambini nel tempo e oltre, McEwan ha sempre lavorato di bisturi e scandaglio, scendendo inesorabile nel terrore diurno della fragilità umana e facendo sanguinare menti e corpi con il rigore formidabile del vero narratore. Tornano temi e figure che da sempre hanno attirato lo scrittore inglese: a partire dal mondo enigmatico e perverso dell'infanzia, colta spesso nel momento di trasformazione in adolescenza.
Qui, nella prima parte, tutto si gioca intorno alla figura della giovanissima Briony, <una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto>: alle prese con la stesura finale di una recita, un ingenuo e coeso universo romanzesco di principesse e cavalieri. Nel lungo ed estenuante svolgersi di quella stessa giornata è proprio questo universo di certezze che va in pezzi, come il prezioso vaso di porcellana che Briony vede finire in frantumi: un episodio che appare incomprensibile perché il reale è, come ella intuisce da quel momento, necessariamente lacunoso e imperfetto.
Ma, proprio per questo, indispensabile a chi come lei ha deciso di essere scrittrice: e dunque fare della propria visione lo strumento di lettura del reale: <in un racconto bastava desiderare, e poi mettere per iscritto il desiderio, e potevi crearti un mondo>. Da questo molteplice andare in frantumi in un giorno d'estate apparentemente lontano dalla Storia la vicenda arriva al suo snodo fondamentale: Briony usa l'arma terribile dell'interpretazione per identificare l'autore di un crimine. Questa metamorfosi del reale è l'invenzione narrativa che sostiene i tre archi del romanzo: che va a riverberarsi nella seconda parte in un inedito scenario di guerra: ci aspettavamo da tempo che lo scrittore nato nel 1948 raccogliesse la sfida ad esplorare quel territorio di orrore che ha segnato in maniera così lancinante l'immaginario della cultura e della società inglesi. L'affresco è magnifico e terribile. Il vagare inebetito delle menti e dei corpi attraverso gli spazi dilatati della ritirata di Dunkerque e l'eroico tentativo di rimettere insieme quei brandelli torturati di vita nelle pietose e inesorabili corsie degli ospedali londinesi sono i due gesti che McEwan sceglie per stringere il destino di Briony, apprendista infermiera, dentro la necessità dell'espiazione.
Ma se inutile è l'<impersonale tenerezza> per i corpi martoriati, se è ormai insensato interrogarsi sulla colpa, un'unica arma rimane alla protagonista: scrivere la storia, facendo giustizia sulla pagina delle sue menzogne di adolescente. É quello che Briony scrittrice ha fatto per cinquantanove anni: ricostruendo puntigliosamente ogni dettaglio, ma cambiando il destino delle due vittime innocenti delle sue menzogne. É quello che abbiamo letto. Qual è, dunque, la verità? E quale redenzione possibile per chi come Briony sa che il <potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio?>.

Ian MacEwan, Espiazione
trad. di Susanna Basso
Einaudi, Torino 2002
pagg. 382, 18,00.

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