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Giustiziere compassionevole

di Luigi Sampietro

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21 maggio 2006

Bang! Bang! Bang! Fin che si scherza si scherza e le armi sparano a ripetizione come nei western di Louis L'Amour (225 milioni di copie vendute) oppure crepitano come in quegli impeccabili noir la cui inflazione di morti nonché generare incubi concilia il sonno come la conta delle pecorelle sotto l'abat-jour. Ma quando il gioco si fa duro non bastano le armi superautomatiche e nemmeno i manierismi degli esperti scrittori di bestseller. Anche il romanzo d'azionesiasciuga nell'intreccio e assume le sembianzeapocalittiche di un libro profetico. Ogni frase si configuracome un'impronta. Come un segno. Un signus. E la domanda d'obbligo non sarà più: «Come sono andate a finire le cose?» o «Chi è stato?», ma «Perché?».
Quando il gioco si fa duro il problema morale (quello che fai) lascia il posto a una preoccupazione ultima. Alla teodicea. Alla riflessione sulla giustizia divina. Ed è il momento in cui qualcuno, lettore o personaggio, comincia a chiedersi: «Ma perché Dio permette tutto questo?». Va da sé che a quel punto le formule ideologiche in funzione delle quali una volta si scrivevano i cosiddetti romanzi engagé vengono azzerate. Non c'è più nulla di certo e l'assetto dei valori - la visione del mondo nel suo insieme - è tutto da ridefinire. Lo scrittore di genere lascia il posto allo scrittore di rango. La detective story all'inchiesta metafisica. E un possibile feuilleton, per fare un esempio sommo ed estremo, nelle mani di Fëdor Dostoevskij diventa Delitto e castigo.
Nel suo piccolo - appena 250 pagine di brevi episodi e dialoghi all'osso condotti con inarrivabile bravura - Cormac McCarthy arriva al culmine della propria, lunga carriera (al suo attivo una "trilogia della frontiera", composta da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, nonché Meridiano di sangue) con Non è un paese per vecchi. Che è un libro sulla predestinazione.
La tragedia sta nel fatto che a esserne convinto sia prima di tutti uno psicopatico,Anton Chigurgh (il nome si pronuncia più o meno come «sugar»), che decide della vita altrui a testa o croce. Non è un paese per vecchi (dal quale i fratelli Coen trarranno un film) è una caccia al l'uomo mozzafiato in cui buoni e cattivi, trafficanti di droga e ragazzine ignare sono egualmente inseguiti dal l'angelo della morte.
Fa eccezione lo sceriffo Tom Bell che è il più attivo, capace e scaltro investigatore nella zona di confine tra il Texas e il Messico ma che rimane, per certi versi, fuori dal gioco. È infatti l'unico personaggio a non essere preso di mira dall'implacabile mostro che impersona la parte del destino. La prima ragione sta forse nel fatto che persino nella visione distorta del superkiller lo sceriffo, cioè «la legge», rappresenta un principio d'ordine dal quale non si può mentalmente prescindere e che riceve paradossalmente conferma ogni volta che viene violato. Ma c'è dell'altro. Lo sceriffo Ed Tom Bell è anche simbolicamente condannato a sopravvivere a se stesso e a prendere ogni giorno visione e coscienza del male e dei morti dopo essere colpevolmente sopravvissuto ai compagni di combattimento in un lontano episodio della Seconda guerra mondiale. Bell è costretto a bere fino in fondo dal calice della frustrazione e della sconfitta. Ma quando la storia si conclude e chiudiamo il libro, rimane nella memoria come un campione di umanità. Un personaggio capace di passion and compassion, come dicevano i grandi scrittori del Modernismo, da Hemingway a Faulkner. Bell dà le dimissioni («No country for old men» è un famoso emistichio di Yeats) e passa la mano. È convinto che «se fosse Satana a voler mettere in ginocchio la razza umana, è più che probabile che si servirebbe della droga». I massacri continuano ma non è detta l'ultima parola.
Le tre pagine finali che ho riletto quasi con commozione contengono la descrizione di un abbeveratoio di pietra per gli animali, in una casa di campagna, abbandonato in mezzo alle erbacce: «Mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai e lo guardai. Non so da quanto tempo fosse in quel luogo. Cento anni. Duecento. Mi misi a pensare all'uomo che l'aveva fabbricato. Quel paese non aveva mai avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo io. Ma quell'uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In che cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato quando la casa era ormai ridotta a un mucchio di macerie. E secondo me quell'abbeveratoio dev'essere ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E devo dire che l'unica cosa che mi viene da pensare è che quel tizio seduto con la mazza e lo scalpello aveva una sorta di promessa dentro al cuore».
Siamo lontani mille miglia dal luogo in cui questo romanzo ha preso l'avvio («Le manette nichelate tagliarono fino all'osso. La carotide destra del vicesceriffo scoppiò. Le sue gambe smisero di scalciare»). Non si può proprio dire che sia stato tracciato un percorso di redenzione. Chigurgh rimane imprendibile e non si sa nemmeno quale sia la sua faccia. Ma alla fine di un intreccio che non si scioglie in nessun senso, tornano comunque in mente le parole di Dostoevskij: «Non voglio e non posso credere che il male sia la condizione normale degli uomini».

Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi
traduzione di Martina Testa
Einaudi, Torino 2006
pagg. 254, € 17,00.

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