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Con gli occhi di un carnefice

di Andrea Casalegno

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4 novembre 2007

«Fratelli umani, lasciate che vi racconti com'è andata»: comincia così la lunga confessione – quasi mille pagine – di Max Aue, alsaziano di padre tedesco e madre francese, sposato con figli, che dirige, sotto altro nome, una fabbrica di merletti nella Francia del Nord. Convinto che «le sole cose indispensabili alla vita umana siano l'aria, il mangiare, il bere, l'evacuare e la ricerca della verità», Max scrive la sera, in ufficio. Il titolo si ispirerà all'ultima riga del testo: «Le Benevole avevano ritrovato le mie tracce». Le Benevole sono le Eumenidi: le Erinni, dee della Vendetta, ormai riconciliate. Verità per sfuggire alla Vendetta, ecco il senso della confessione.
Educato in Francia da una madre che odia – non le perdona le nuove nozze con un francese dopo la dichiarazione di morte presunta del primo marito, né di averlo chiuso in collegio per allontanarlo dalla sorella gemella Una quando viene scoperto il loro amore appassionato e carnale – Max venera il ricordo del padre, scomparso poco dopo la Grande Guerra. Solo nel 1944 scoprirà in modo fortuito, da una lettera mai spedita della sorella a lui stesso, che egli era stato il sadico comandante di uno dei Corpi Franchi, le feroci milizie di soldati tedeschi congedati che alla fine della guerra avevano combattuto contro i nuovi Stati baltici.
Appena uscito di collegio, Max va a studiare a Berlino. Ma, sorpreso durante un rapporto omosessuale, viene costretto ad arruolarsi nelle SS. Max però sa adattarsi. Sotto gli occhi benevoli di Thomas, un commilitone di poco più anziano, che gli salverà più volte la vita, e di un misterioso protettore, capo di una potente società segreta (una sorta di caricatura noir della Società della Torre che guida segretamente i passi del Wilhelm Meister di Goethe), fa carriera e si guadagna la fiducia dei superiori, che gli affidano compiti sempre più importanti. Il più importante è la «soluzione finale» del problema ebraico, la «liquidazione» di tutti gli ebrei d'Europa. Max partecipa a ognuna delle sue tappe, dalle prime fucilazioni di uomini, donne e bambini dietro le truppe tedesche che avanzano in Ucraina sino all'evacuazione del campo di concentramento di Auschwitz. E, man mano che sale di grado, collabora sempre più da vicino con gli ideatori e gli organizzatori dello Sterminio: Himmler, Heydrich, Frank, Speer e, naturalmente, Eichmann.
Max è un uomo di elevata cultura. Ama la musica (avrebbe voluto suonare il pianoforte) ed è sensibile alle sofferenze umane. Consapevole dell'orrore e dell'ingiustizia, soffre per «la spaventosa, inalterabile solidarietà umana» e, di tanto in tanto, si intenerisce perfino su se stesso: «Hanno fatto di me un uomo che non può vedere una foresta senza pensare a una fossa comune». Ma non permette alla compassione di interferire con il suo lavoro: «Ciò che ho fatto, l'ho fatto con piena cognizione di causa, pensando che si trattasse del mio dovere». Non è un cinico; crede davvero nella «vittoria finale», e quindi nella «dolorosa necessità» di annientare i nemici del Reich, ebrei e bolscevichi in primo luogo. Ha paura, ma sa dominarla, come dimostrerà a Stalingrado (dove per la sua eccessiva franchezza è stato trasferito) e a Berlino. E, quando lo giudica necessario o utile, uccide con freddezza e con gusto. Qui però si inserisce una trama poliziesca, con sfumature alla Dürrenmatt, di cui non parlerò per non rovinarla.
Nato nel 1967 a New York da una famiglia ebraica, Jonathan Littell ha studiato in Francia e a Yale. Ha lavorato per anni nella cooperazione internazionale, in Bosnia, Cecenia, Afghanistan e Congo, e, a 22 anni, ha pubblicato Bad Voltage, un romanzo di fantascienza cyberpunk. Nel 2001 comincia a scrivere, in francese, Les Bienveillantes, che, rifiutato da Calman-Lèvy, esce nel 2006 da Gallimard e gli conquista il Prix Goncourt, il Grand Prix du Roman dell'Accademia di Francia e la cittadinanza francese.
È davvero un capolavoro, «non romanzo storico, ma storia assoluta», come recita il risvolto di copertina, addirittura «l'evento del secolo», iperbolico giudizio che Wikipedia attribuisce niente meno che a Jorge Semprun, il grande scrittore franco-spagnolo reduce dai campi di concentramento?
Littell adotta con abilità la classica formula inventata da Walter Scott in Waverley (1814) e analizzata da Lukács in Il romanzo storico: il passato rivive attraverso gli occhi di un personaggio «medio» di fantasia – Waverley, Ivanhoe, Natty Bummpo, Renzo e Lucia, d'Artagnan, Pierre, Dick Shelton, Max Aue, e così via – che incontra e ritrae di scorcio i grandi protagonisti della storia reale. Littell conosce bene le fonti, e la sua narrazione è densa e potente per più di metà dell'opera. La lettura è faticosa, certo. Ma la ripetitività delle vicende e l'oscenità dei particolari non sono gratuite: ripetitiva e oscena è la verità storica, che sfida qualunque fantasia. Poi la stanchezza prevale; e lo ammette, astutamente, Aue stesso. Ma la trama poliziesca e il finale a sorpresa, che echeggia un altro libro "maledetto", Il nazista e il barbiere di Edgar Hilsenrath, tengono desta l'attenzione.
È moralmente lecito usare la Shoah come materia d'invenzione artistica? No, in nessun caso, ha dichiarato Claude Lanzmann. I fatti l'hanno smentito. Ma ha fatto bene l'Einaudi a far uscire Le Benevole, nell'eccellente traduzione di Margherita Botto, insieme a Shoah (libro e quattro dvd), il capolavoro in cui Lanzmann intervistò, 22 anni fa, i superstiti dello Sterminio.
1Jonathan Littell, «Le Benevole», traduzione dal francese di Margherita Botto, Einaudi, Torino, pagg. 956, € 24,00.

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