C'è un leone ferito dentro Kym, giovane donna segnata da un passato che le infligge torture quotidiane. E c'è un Leone d'oro (e una Coppa Volpi) qui a Venezia che aspettano Jonathan Demme, il suo nuovo film Rachel getting married (nelle sale italiane dal 21 novembre per Sony Pictures Classic) e la sua straordinaria protagonista Anne Hathaway. «Il film ha due piani – racconta il regista –. La perfezione dell'organizzazione del matrimonio, senza crepe. E il disastro emotivo che sconvolge la famiglia della sposa».
Storie di straordinaria normalità, vite spezzate che cercano di amarsi, ritrovarsi, capirsi. «La sceneggiatura di Jenny (Lumet, figlia del grande regista, ndr) era perfetta e dettagliata- sottolinea la protagonista – e Jonathan aveva sempre in mano il termometro della situazione e della storia: per me è stato facile e bello seguirli». Kym è una giovane in riabilitazione da una tossicodipendenza che ha devastato lei e la sua famiglia. Esce dal centro pochi giorni prima del matrimonio della sorella Rachel, e ovviamente l'evento e il nucleo familiare diventano una bomba ad orologeria. Una tragedia greca tra quattro mura della media borghesia, un'opera di alto profilo artistico e morale che regala momenti di regia e tensione narrativa davvero unici. Persino quando la protagonista in scena è una lavastoviglie.
«Sento di essere ringiovanito, di aver trovato una nuova strada, un linguaggio diverso e più motivante – dice Demme – Da dieci anni faccio documentari, ero stufo del mainstream, strada che ho ritentato con Manchurian Candidate. I grandi film tolgono una montagna di energie senza essere sufficientemente seguiti e valorizzati, a partire dalla distribuzione. Così ho pensato di fare un film di fiction con il linguaggio del documentario». Ne è uscito un piccolo capolavoro, un racconto dolce e malinconico di vite sbagliate, una galleria degli errori che è comune a tutti noi.
Il regista che ha raggiunto (ma non se n'è fatto corrompere) un successo planetario con Il silenzio degli innocenti ha saputo reinventarsi. «Credo – continua – che la tecnologia digitale sia la nuova risposta a tanti interrogativi cinematografici. Ci permette una flessibilità spazio-temporale unica, per non parlare dei vantaggi finanziari. È eccitante percorrere questa nuova frontiera, fatta di immediatezza e spontaneità. Penso a momenti della settima arte ben precisi: Dogma, il neorealismo italiano e la nouvelle vague. Sono un po' schizofrenico nel mio fare cinema».
È la lezione di Roger Corman, mentore della New Hollywood e dello stesso Demme, l'uomo che sconfisse le major senza mezzi e scovando grandi registi in erba. È un cinema contaminato e meticcio in contenuti e forme: tanti i neri nel cast, costante il rapporto con le diversità così come con le difficoltà sociali e personali. E tante parti per bravi attori, tra cui spiccano i due genitori delle sorelle terribili, Bill Irwin e Debra Winger, figure nobili e fragili. È un film speciale che ha in sé tutto: emotività, compassione, critica sociale e politica. Passione, quest'ultima, che unisce a doppio filo regista e attrice. «Obama- rappresenta una speranza per il mondo intero, vincerà – dice il regista –. Per la prima volta voto qualcuno perché lo voglio, e non perché non voglio il suo avversario». «Sono stata una settimana alla convention democratica – gli ha fatto eco la Hathaway – e la forza, la solidarietà, l'unione che Obama suscita in chi lo ascolta l'ho toccata con mano. È ciò di cui ha bisogno l'America». E anche di questo nuovo cinema purgatorio di Demme.