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Monicelli, quanto era bella l'Italia artigiana

di Emanuele Bigi

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1 settembre 2008
Il regista Mario Monicelli

Il grande "vecchio" del cinema italiano sbarca a Venezia con il documentario "Vicino al Colosseo c'è Monti". Mario Monicelli ci porta a Roma, nel rione Monti, tra i suoi vicoli, le botteghe, le feste di quartiere, le scuole di musica e cinema. Via dei Serpenti, Via del Boschetto, la Piazzetta e Via dei Capocci, un viaggio in un microcosmo di artigiani "lontano dalla Roma imperiale", abitato dai volti scavati degli anziani.

Cosa rappresenta per lei questo quartiere?
È da 25 anni che vivo qui, sono arrivato per la prima volta negli anni Trenta, ero un giovane cineasta in cerca di lavoro, ricordo ancora la casa in affitto, si trattava di una camera con ingresso, così le chiamavano, era comoda perché potevo invitare chi volevo senza chiedere il permesso a nessuno.

Perché ha accettato di realizzare "Vicino al Colosseo c'è Monti"?
Per amore del rione, mi sono sempre trovato bene, dal barbiere al macellaio, tutti mi trattano senza pretendere nulla. Volevo raccontare un quartiere che non avevesse niente di imperiale, ma che potesse essere un luogo qualsiasi di una qualsiasi città, non avevo tesi da dichiarare, mi interessava fare semplicemente delle annotazioni, come su un block notes. Il lavoro è stato possibile grazie a Chiara Rapaccini, è sua l'idea, e ad altri collaboratori, insieme decidevamo cosa e come riprendere. Abbiamo girato più o meno otto ore.

Com'è cambiata Roma nel corso del tempo?
È cambiata moltissimo, è più grande e più affollata. Negli anni Trenta alle nove e mezza della sera piombava il buio assoluto, le strade si svuotavano, si incontravano solo gruppi di ragazzi che per passare il tempo si spostavano da una fontana all'altra.

E la nostra situazione politica?
Quella forse è rimasta immobile, prima c'era il fascismo, oggi forse esiste ancora, sta solo indossando un abito nuovo. La qualità della vita si sta abbassando, tra un po' dovremo abituarci a spegnere prima le luci di casa, a usare meno acqua calda, il livello di povertà sta crescendo, ma nessuno vuole accettarlo così la gente pensa a indebitarsi.

Giuliano Montaldo durante la consegna del Premio Bianchi, qui a Venezia, ha detto che ci vorrebbe un po' di Sessantotto per difendere il nostro cinema. Cosa ne pensa?
È stata la rivolta dei ragazzi, dei figli di papà della piccola borghesia che volevano essere come i francesi o gli inglesi, è la generazione che ci ha gettato nel consumismo, una generazione che ha rovinato l'Italia. È il consumismo che ci ha ridotto così, comprare una Ducati o andare in vacanza a tutti i costi non significa essere qualcuno.

E invece cosa ricorda della Mostra di quel periodo?
La cosa più bella è che desideravamo un cinema alternativo, volevamo premiarlo e mostrarlo. Mi vengono in mente le contestazioni a Chiarini. Era un'Italia vivace, combattiva, oggi c'è solo voglia di non faticare e consumare risorse che in realtà non ci sono.

La nostra cultura a che punto è arrivata?
C'è un certo sussulto nel cinema italiano, per il resto vedo ben poco all'orizzonte. Qui mi dicono che sono stati applauditi il mio film e quello di Manoel De Oliveira, aspettiamo che diventino vecchi Paolo Sorrentino (Il divo), Matteo Garrone (Gomorra), Paolo Virzi (Tutta la vita davanti), Vincenzo Marra,(L'ora di punta), Emanuele Crialese (Nuovomondo) e Carmine Amoruso (Cover Boy), saranno applauditi molto anche loro.


Qual è il segreto del successo di un film?
La semplicità. Tanto più il racconto è autentico ed elementare tanto più resisterà nel tempo. Il problema è che è molto difficile ottenerla. Oggi al contrario si tende all'accumulazione.


Come si diverte alla sua età?
Mi diverto a parlare con voi giornalisti (sorride), a discutere sul cinema. Il "Der Spiegel" ha appena criticato la scelta di Müller di inserire in concorso alla Mostra quattro film italiani. E chi l'ha detto che è sbagliato? Dipende sempre dalla qualità dei film. Loro li hanno visti? È sbagliato giudicare a priori.

Ritornerà dietro la macchina da presa?
Non lo so, a dire la verità con i miei collaboratori vorremmo realizzare un progetto che risale agli anni Sessanta, ma non c'è ancora nulla di concreto.

Ce ne può parlare?
No, sarei presuntuoso.

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