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LE GIORNATE AL FESTIVAL

Festival di Roma, per ora vince la noia

di Boris Sollazzo

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16 ottobre 2009
Richard Gere sul red carpet (Lapresse)
GALLERIA FOTOGRAFICA
Il secondo giorno

Inizio al rallentatore per il Festival di Roma. Se si escludono emozione col contagocce e furbe scene strappalacrime nel dramma civile e storico Dawson, Isla 10 e nel melodramma canino Hachiko: A dog's story, tutto il resto è noia. Da Tanovic ad Ivory passando per l'atteso Viola di mare, le delusioni sono cocenti. Roma, forse, comincia a soffrire la concorrenza dei festival più esperti e dopo gli investimenti veltroniani, sta arrivando un precoce autunno. O forse è solo un esordio sfortunato di questa quarta edizione. Ai posteri (fra una settimana) l'ardua sentenza.

Hachiko: A dog's story- Fuori concorso Anteprima/Alice nella città
Una leggenda giapponese degli anni '20-'30, un divo stagionato che anche in versione nonno fa la sua figura- anche se civettuolo si fa affibbiare l'età bugiarda di 51 anni-, tanti buoni sentimenti. Una ricetta efficace ma troppo povera per farne un film, e così Lasse Hallstrom (che invecchiando peggiora, una buona bottiglia di vino avviata a diventare aceto) ci offre un racconto breve gonfiato, con etica ed estetica da fiction. Un film che elude la noia con lacrime facili- il cane migliore amico dell'uomo e viceversa, da Rin Tin Tin a Io & Marley, paga sempre- e che vive solo due colpi di scena: l'Akita (bravissimo) che impara a riportare la palla lanciata dal padrone e la morte di quest'ultimo, che al vero Hachiko ha portato una fama decennale. Già perché questo cagnone, di razza intelligentissima, il suo Richard Gere giapponese, professore universitario pendolare, lo accompagnava ogni giorno alla stazione e poi passava a riprenderlo. Dopo la prematura scomparsa dell'umano, il nostro eroe animale farà lo stesso, con affetto determinato, commovente e un po' patetico per nove anni. Hachiko: A dog's story (arriverà nelle sale italiane grazie a Lucky Red) si accascia su una vicenda realmente accaduta con la pigrizia indolente di chi sa che basterà la realtà a superare la fantasia. E sbaglia, perché il gioco si scopre subito, nel montaggio serrato e monotono, nelle scene-scorciatoia con cui Gere e il cane cercano di conquistare lo spettatore, nella povertà di sceneggiatura. Al vero Hachiko la fedeltà che si traduce nel non dimenticare gli amati valse una statua in bronzo nel posto in cui aspettava il padrone morto. A pietrificare noi è solo la noia.
Voto: 4

Dawson, Isla 10- Concorso
Miguel Littìn è una leggenda, un regista che ha avuto l'onore di essere apprezzato e (de)scritto da Gabriel Garcìa Marquez, che sul suo talento e la sua carriera, sul suo cinema civile e appassionato, ci ha fatto un libro. Ha forse il difetto di avere qualche schema e qualche ingenuità di troppo, ma con la macchina da presa ha raccontato pezzi di storia e di umanità spesso dimenticati. Così è successo anche nel caso di Dawson, Isla 10 che scende fino allo Stretto di Magellano, al campo di prigionia istituito dai golpisti cileni di Pinochet. Lì c'erano gli oppositori illustri, quelli che la comunità internazionale era più restia (ma non troppo) a ignorare, il governo Allende in tutti i suoi ministri e affini che non avevano scelto l'esilio volontario. Uomini uniti da un'idea, un ideale e un'ideologia, nel senso più nobile del termine, uomini che hanno visto il sacrificio politico e umano di Salvador Allende, primo comunista eletto democraticamente che ha rispettato il proprio mandato fino in fondo, morendo arma in pugno per difendere la Moneda stuprata dai bombardamenti dei militari traditori (e sovvenzionati e sostenuti, dice la storia, dagli Usa e da quel Kissinger premio Nobel, quello sì ingiusto e assurdo) per non tradire il suo popolo, la sua patria. E Littìn, grazie a ottimi attori, ci mostra i suoi discepoli e alleati alle prese con la banalità del male del regime, senza avere la "fortuna" di una morte eroica ma solo la condanna di una prigionia umiliante. E, come ci ricorda Sergio Bitar nel film e nel libro omonimo, sarà "non l'esperienza più eroica della nostra vita, forse, ma sicuramente quella più degna". Ci si può spezzare, senza piegarsi. Anche questo vuol dire essere fedeli a un compagno presidente (così, o Salvador, viene chiamato Allende dai prigionieri) e a un percorso politico. La normalità dell'onestà intellettuale, politica e morale (vengono sempre ricordati i Che Guevara, mai Sankara o Allende, i combattenti e non chi ha governato, come mai?). Un sacrificio da ricordare, per non dimenticare che questo mondo, in alcuni momenti, ha saputo essere migliore di così.
Voto: 7

The city of your final destination- Fuori concorso
Di Ivory regista c'è da fidarsi poco. Ora c'è da togliergli qualsiasi credito. The city of your final destination, storia di un ragazzo indolente che vuole scrivere una biografia impossibile per il suo dottorato (è un precario ed è la sua unica occasione di raggiungere il ruolo di docente universitario) e che per questo scende in Uruguay a visitare la famiglia del soggetto dei suoi studi, per convincerla ad autorizzarlo a scrivere del compianto estinto, un grande scrittore di un unico celebratissimo libro. Cerca la verità sul morto, lo studioso, trova il mondo snob dei superstiti: un'amante (Charlotte Gainsbourg), un fratello (Anthony Hopkins) e una moglie (Laura Linney). Diventerà parte della famiglia e si affrancherà dalla fidanzata dalla personalità troppo forte (Alexandra Maria Lara, bellissima e brava nell'esserci odiosa). Ne esce un film barocco con qualche frase arguta e leziosità visive e narrative insopportabili, un'opera dalle straordinarie doti soporifere e di rara presunzione. Un ritratto di famiglia che diventa uno specchio deformante di amori e debolezze umane. Ivory si bea del talento del suo cast, incapace di costruire un film, lasciandoci con un puzzle incompleto, inutile e spesso insopportabile.
  CONTINUA ...»

16 ottobre 2009
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