Che il Natale potesse soggiornare nel cuore e nelle corde vocali di un orco era poco probabile. Che quindi Bob Dylan, con la sua voce graffiata, consumata, glorificata e trasformata in monumento dal correre del tempo potesse mai risultare credibile cantando "I'll be home for Christmas", "Little drummer boy", "O come all ye faithful (ossia Adeste Fidelis)" e "Must be Santa" era impresa da non ritenere facile. E invece, quasi per la magia da Cantico di Natale alla Dickens, l'orco si intenerisce e intenerisce. Tutto l'insieme, tra campanelle natalizie e accenti country, assume l'aspetto di un disco che risiede fuori dal tempo, oltre il defluire normale delle note e delle canzoni, in un tempo senza tempo che forse si può chiamare moderno, ma nel senso del modernariato. Le canzoni, consunte dall'uso, diventano altro. E' merito di quella voce graffiata e abrasiva, quella voce di carta vetra che ha cantato delle speranze di una generazione, di risposte finite nel vento, di terrore per il nucleare, di smarrimenti vari, anche esistenziali e religiosi e che, nonostante tutto, oltre la necessità e la voglia, continua a cantare, a scrivere canzoni, a dare emozioni e sensazioni.