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Olocausto e cinema: cambiare per ricordare

di Boris Sollazzo

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27gennaio 2010


L'Olocausto al cinema ha sempre trovato un posto privilegiato. Da subito, o quasi, la Settima Arte è diventato un veicolo del ricordo e della memoria collettiva con cui si è cercato di far conoscere a tutte le generazioni del dopoguerra l'orrore della Shoah. Così da regalarci capolavori e opere di grande solidità che ci avvicinassero al dramma di un popolo, all'abdicazione dell'umanità di un altro, all'indifferenza colpevole di troppi. Tutti forse ricordiamo Schindler's List (1993), e facciamo bene. In Italia fu Perlasca, in tv, a raccontarci la banalità del male. Strutture classiche, epiche ed etiche, grandiosamente ancorate (quello di Spielberg è un capolavoro terribile e meraviglioso, il finale è un pezzo di cinema e di umanità di altissima scuola) agli stilemi del film educativo, quasi didattico, della storia esemplare.

Ma negli ultimi anni- da poco più di un decennio- qualcosa è cambiato. I campi di concentramento sono entrati nell'immaginario comune, forse la memoria si è assopita e il cinema stesso ha cercato di ricordarceli in altro modo. Sotto la lente del genere, così come per molti altri argomenti. Dal cinema d'autore e di formazione si è passati al noir, al grottesco, alla tragicommedia sentimentale perchè anche chi, ormai, è lontano per età e formazione da quell'orrore, potesse sentirlo vicino. Anche qui, per non dimenticare.
Cominciò tutto con La vita è bella (1997) di Benigni. Oscar, ovazioni in tutto il mondo, il suo clown triste che cerca la felicità per il suo bambino, che protegge l'amore e il romanticismo anche nell'odio e nel terrore, commosse il mondo. Anche se forse tutto cominciò invece con il pur successivo Train de Vie (1998) di Radu Mihaileanu (a proposito, a febbraio esce il suo Il concerto: sempre di persecuzione antisemita si tratta, ma russa e comunista). Una commedia su un treno di folli che porta alla tragedia e che, si dice, proprio a Benigni fu proposta come attore (doveva fare il matto del villaggio). Coincidenze.

Sembrava un momento d'oro e irripetibile, e per un pò fu così. Poi, negli ultimi anni, il pudore lasciò il posto alla sperimentazione di un altro modo di raccontare la Shoah.
Arrivò a un passo dagli Oscar Il falsario (2007). Partito dalla Berlinale in sordina, la storia di un furfante-artista, un falsario, che finisce in un lager e qui ritrova dignità, coraggio e onestà, piacque subito a tutti. Noir, thriller e commedia umana, viene ricordato per l'avvincente trama (il nostro, con un gruppo di colleghi, doveva stampare moneta nemica falsa per minare bilanci ed economie degli avversari per far vincere la guerra al Terzo Reich) e una battuta dei prigionieri ebrei, scorretta ma indimenticabile: "sapete perchè Dio ad Auschwitz non c'è? Non è riuscito a entrare, non ha passato le selezioni".

Ebreo anche il cineasta Dani Levy, genio che ha partorito Zucker e che con La veramente vera verità su Adolf Hitler (2007) riuscì a decostruire, tra il grottesco e l'indignato, la figura del dittatore con uno delle ultime grandi performance del grande Ulrich Muehe. Straordinario il discorso del comizio finale, qui il lager rimane sullo sfondo, è una paura che si materializza per poco: il palco è per l'attore e il dittatore, per i loro duetti comici e avvilenti allo stesso tempo, per la storia riscritta guardando il lato assurdo e atrocemente comico dell'orrore. Discusso e controverso, ma nelle parole e nelle azioni ipotizzate da Levy l'impatto emotivo, politico e umano è fortissimo. Non sarà classico, ma probabilmente è efficace.

E' un racconto per piccini Il bambino col pigiama a righe (2008). Costruito, fin dalla sua origine editoriale, come una storia di bambini per bambini. Dolce, divertente e infine lancinante e struggente (bellissima e durissima l'inquadratura sulla porta chiusa della camera a gas). Un romanzo di formazione che ci parla della forza infantile che porta alla conoscenza e all'integrazione, e della cecità distruttiva degli adulti e dei loro pregiudizi. Non sarà una favola della buonanotte, ma è un modo intelligente e potentissimo di spiegare l'Olocausto ai più piccoli.
L'ultimo esempio- un altro genere ancora, anzi un mix di generi- è Inglorious Basterds (2009) di Quentin Tarantino. Qui ci sono ebrei che si ribellano, c'è la fantasia della reazione e della vendetta in tempo reale che per anni ha albergato nella psicologia (e nella psicosi) collettiva delle vittime. Cambiare il corso della storia, in questo caso con un gruppo di soldati scelti (e feroci) e una bella Melanie Laurent e il suo teatro (bella metafora). Film non riuscito e sopra le righe, forse, ma che conferma la tendenza a raccontare senza più confini quell'orrore, perchè non sia coperto dall'oblio. Intrattenimento e impegno. Si può, e a dircelo fu Polanski, Oscar in contumacia per Il pianista (2002). Per non dimenticare.

27gennaio 2010
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