Forse, senza l'allargamento a dieci candidature per il miglior film, quest'opera di fantascienza a basso budget (30 milioni di dollari lo sono, almeno per il genere) prodotta e voluta da Peter Jackson e diretta con bravura e abilità da Neill Blomkamp, a concorrere per l'Oscar non ci sarebbe mai finita. E sarebbe stato un peccato: forse non sarà lei ad aprire alla fantascienza le porte dell'Academy, ma di sicuro fa bene a un cinema poco coraggioso un lungometraggio che affronti, con grottesca ironia e lucida cattiveria, la metafora del mondo attuale e della sua storia. Il titolo ricorda il district 6, inferno in terra sudafricana ai tempi dell'apartheid, lager a cielo aperto in cui il razzismo di stato covava e coltivava i suoi orrori. E i mostri brutti e goffi, che pur ben ideati sembrano una parodia del cine-immaginario "alieno" del dopoguerra (con spruzzi di Carpenter), sono una minoranza schiacciata dall'ottusità bianca, dalla loro paura, dalla loro politica razzista. Che è quella che vediamo in tutto l'Occidente, e che il cinema può raccontare col bellissimo e realistico Welcome o con District 9, appunto. La struttura e quella di un mockumentary che documenta lo sgombero del quartiere alieno, una rivolta da banlieue, una repressione-linciaggio che abbiamo già visto in tutta Europa. E in Italia. Difficile che possa vincere: non ha sponsor importanti e gioca troppo con la nostra coscienza sporca.