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Meglio il libretto rosso o quello degli assegni?

di Mario Margiocco

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9 ottobre 2009

All'Occidente piace molto l'idea di una Cina che salva il capitalismo globale, azzoppato da un indebitamento senza precedenti, mai così alto neppure ai tempi della Grande Depressione. Gli Stati Uniti sono entrati nella Grande Recessione del 2007-2009 con il 70 per cento di debito privato in più rispetto al 1929, e con un debito triplo rispetto a quello degli anni Ottanta. In totale, compreso il debito pubblico, poco meno del 400 per cento del Pil. Cifre mai viste. La Gran Bretagna, l'Irlanda, in parte anche la Spagna hanno seguito una traiettoria non molto diversa. Meglio l'Europa continentale, dove però il sistema bancario ha profonde sovraesposizioni da sanare, e dove ugualmente il debito pubblico, arrivato spesso in soccorso, ora corre. Rientrare da questo debito richiederà per alcuni anni ingenti risorse, sottratte allo sviluppo. Senza questo debito, anche i danni dei derivati più arditi sarebbero stati gestibili, perché è il nesso tra debiti storici e finanza innovativa che ha dato alla crisi finanziaria proporzioni mai viste.

La Cina, da parte sua, è entrata nella stagione attuale con un debito estero contenuto (oggi poco più di 350 miliardi di dollari), con un attivo enorme sui conti esteri, con circa 800 miliardi di titoli del Tesoro americano, con altri investimenti in titoli pubblici Usa (Fannie e Freddie) che portano il totale ben oltre i mille miliardi, e che ne fanno con il Giappone la cassaforte del mondo. In totale, ha duemila miliardi di riserve monetarie e oro, più circa 900 miliardi di investimenti esteri. Mentre il debito interno è molto basso, attorno al 20 per cento del Pil.
Mentre in Europa e soprattutto negli Stati Uniti ci si interroga sulla sostenibilità e l'opportunità del massiccio intervento statale anticrisi nell'economia, in Cina la mano pubblica - Stato e partito - sta pilotando il Paese verso un 8 per cento di crescita del Pil. In calo sul recente passato, ma sempre fortissimo. La formula non è miracolosa: l'ormai trentennale risveglio cinese più, ora, la spesa pubblica.

La Cina è stata la maggiore protagonista di uno straordinaria fase che ha visto negli ultimi vent'anni l'ingresso nel sistema industriale di oltre un miliardo di nuovi produttori (1). L'epocale fenomeno ha accresciuto (e spostato) la ricchezza globale e prefigura nuovi rapporti di forza. Può la Cina diventare la nuova locomotiva della crescita mondiale? «No, non adesso, ma potrà farlo a un certo punto se continua a spingere sullo sviluppo economico», sostiene David Dollar, ex direttore dell'ufficio di Pechino della Banca mondiale e da luglio rappresentante del Tesoro americano nella capitale cinese. Il ragionamento è chiaro. Il motore della crescita negli anni 2000 è stato, fino all'inizio del 2008, il consumatore americano. Le forze congiunte delle altre tre maggiori economie mondiali - Cina, Giappone e Germania - non arrivano a eguagliare la sua forza trainante. Poiché ora il consumatore americano aumenta i risparmi e taglia i consumi, è impensabile che la Cina da sola possa far invertire la rotta.
«Pechino deve stimolare i consumi interni» ha detto ai suoi ospiti cinesi, che lo hanno accolto a maggio come una star, il Nobel dell'economia Paul Krugman. Con una borsa di Shanghai in pieno boom, che cresceva a fine estate del 60 per cento circa, cioè il triplo rispetto a New York e all'area euro, il mercato azionario cinese ha superato d'impeto il forte rallentamento d'autunno. Secondo il Fondo monetario, nel triennio 2008-2010 la Cina da sola conterà per i tre quarti della crescita mondiale.

Il merito ora va soprattutto al massiccio piano di stimolo pubblico, e a come è stato gestito. Con 586 miliardi di dollari su due anni lo stimolo cinese è secondo solo ai 787 miliardi di quello americano. Ma mentre quest'ultimo, votato dal Congresso, è purtroppo spesso una sommatoria di progetti a pioggia giacenti da tempo nei cassetti di deputati e senatori - ci sono anche quattro miliardi per le polizie locali e varie altre voci stravaganti - il piano cinese è concentrato sui lavori pubblici e si è inserito su programmi già decisi e in esecuzione che sono stati accelerati e ampliati.

È difficile sostenere che la Cina abbia oggi un modello esportabile, poiché si tratta di un "parti-capitalismo", un capitalismo di partito dove il turbo lo fornisce la voglia di fare e migliorare, febbrile a volte, di un miliardo e 300 milioni di persone eredi di una grande civiltà (2) e di un secolo, l'ultimo, di miserie. Non c'è dubbio che un sistema decentrato nell'esecuzione e accentrato nelle decisioni strategiche - governo o meglio partitocentrico - non abbia dovuto affrontare con il 2008 nuovi paradigmi.

Mentre Washington decide molto più di prima, Pechino decide come prima. Ad esempio, ha deliberato una potente iniezione di credito alle banche, con la Banca centrale che ha concesso nei primi sei mesi di quest'anno 1.100 miliardi di crediti, più del doppio del totale 2008. Di questo passo verranno superati nettamente a fine anno i duemila miliardi. Una misura monetaria straordinaria per accelerare produzione e consumi. E il consumatore cinese ha risposto spendendo il 15 per cento in più ad agosto, rispetto a anno fa. Durerà? In parte il notevole il boom della Borsa di Shanghai è dovuto ai crediti dell'istituto centrale finiti sul listino. È possibile che un Paese dall'economia possente, ma dove il reddito pro capite di 6mila dollari l'anno è meno di un sesto di quello americano e meno di un quinto di quello dell'area Ue, e dove i consumatori hanno complessivamente la stessa forza d'acquisto di quelli francesi, faccia presto da locomotiva? Un Paese dove la middle class urbana si ritiene arrivata, per ora almeno, quando ha un reddito di 12mila dollari? E soprattutto, è possibile che una ripresa finanziata in gran parte dal denaro pubblico sia duratura? Quello che la Banca centrale ha fatto è distribuire liquidità, sostenere una produzione indebolita dalla minore domanda esterna, in attesa che questa riprenda. La Cina ha fatto la sua parte, la farà, ma mentre l'Occidente aspetta la Cina, la Cina aspetta ancora l'Occidente.

9 ottobre 2009
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