Inviato del «Sole 24 Ore» e autore
di numerosi libri sugli eventi mondiali
e sul costume del nostro Paese,
Marco Innocenti racconta i grandi fatti
del passato e come l'Italia li visse
Se ne va a 69 anni, il 17 febbraio 2005, per un tumore al pancreas, a San Nicolas, il paese da cui era partito per l'Italia. Ma forse aveva cominciato a morire quando gli era mancato ancora giovane un figlio e la vita gli era sembrata più amara. Argentino di nascita, italiano di adozione, Omar Sivori resta un pezzo di storia del nostro calcio: 215 presenze e 135 reti con la Juventus, 63 partite e 12 gol con il Napoli, nove presenze in Nazionale, una carriera in una finta, una vita in un dribbling. Mai regalato niente a nessuno, mai porta l'altra guancia, sempre pagato di persona.
Il debutto in bianconero
Arriva a Torino nel '57. Fra un palleggio e un sinistro all'incrocio dei pali nasce la Juventus del trio magico Charles, Sivori, Boniperti: i primi due si completano, i secondi si detestano. Sivori, spirito perfido e caliente, fantasista dal sinistro magico, diventa il nuovo, sorprendente simbolo della squadra. Tanto irruente, provocatorio e indisponente lui, quanto celebre la Juventus per compostezza e sobrietà. Insomma, due opposti che s'incontrano.
Tre scudetti
Omar fa fare un salto di fantasia alla squadra, che vince tre scudetti, nel '58, nel '60 e nel '61. Il suo calcio istintivo è fatto di bellezza selvaggia, improvvisazione pura, classe arrogante, indole aggressiva, renitenza alla disciplina. Immenso nel dribbling stretto, calzettoni provocatoriamente abbassati, palla attaccata al piede, tocchi al volo e mezze rovesciate, opportunista, parassita diabolico sul centrosinistra dell'attacco, sciorina con impudenza l'arte del tunnel. Indolente e insolente, immarcabile e ingestibile, fa col pallone quello che vuole, nella finta, nel tiro (è capocannoniere nel '60 con 28 reti) e, se è dell'umore giusto, anche nell'assist.
Botte e gol
Se nel suo gioco da tipico numero 10 c'è tutto, il carattere non è la sua parte migliore. Attaccabrighe, istrione, cinico, beffardo, prendingiro, malandrino, Sivori litiga con mezzo mondo. Il suo sinistro velenoso è capace anche di tacchettate durissime, la sua lingua è ancora più tagliente e spesso attorno a lui si accendono mischie, volano calci, pugni, schiaffi, sputi. Omar è fatto così, ma a lui, il più artista dei pirati del football, si perdona tutto, anche le risse in campo poco consone allo "stile Vecchia Signora" e le 33 giornate di squalifica che segneranno un'ombra sulla sua carriera.
Il Pallone d'oro e il declino
Nel '61 Omar vince il pallone d'oro ma nel '62 comincia, lento ma irreversibile, il declino. Conduce vita sregolata, è molto nervoso, si allena poco, si scontra con l'allenatore Heriberto Herrera, che cerca di imporgli il suo gioco, tutto lavagna, pressing e collettivo. L'avvocato Agnelli, che lo ama e aveva detto «Sivori è un vizio», cede a malincuore il suo pupillo al Napoli. Nel '65, dopo otto anni in bianconero, il ragazzo dal tunnel facile sbarca a Mergellina, accolto come un re. Giocherà a corrente alternata, fino al 18 dicembre '68 quando, espulso da Lo Bello, lo insulta e si prende sei giornate di squalifica. Ma ormai non gliene importa più niente, perché il re ha deciso di abdicare, tornandosene nella sua terra. Lì invecchia, nella tenuta agricola di San Nicolas. Quando se ne va, lascia il ricordo di un calcio spettacolo che oggi, come il tunnel, non usa più.