Ha vissuto tre anni da barbona. A Lione, tra droga e case occupate. Oggi, dirigente pubblico, lavora per vari ministeri su progetti volti a prevenire l'esclusione sociale. In mezzo l'Ena, la fucina delle élite di Francia. È l'incredibile storia di coraggio e redenzione di Anne Jouber
Anne Joubert continua a vivere a Parigi, in un piccolo appartamento nel decimo arrondissement, tra libri, foto e maschere africane.
Anne si sveglia presto la mattina. Per andare al lavoro al ministero, al di là della Senna, sotto Montparnasse. «Prendo la metropolitana: davanti a me c'è una giornata pie-na, tante responsabilità. Mi capita di guardare un senzatetto, steso per terra, e d'improvviso mi prende la voglia di fermarmi accanto a lui, tutto il giorno. A chiedere l'elemosina. E a non pensare a nulla». Qualche istante. «Quel desiderio, poi, mi passa subito».
Anne Joubert, 47 anni, sa di cosa sta parlando. Un anno fa ha pubblicato il libro autobiografico De la zone à l'Ena, pubblicato da Le Cherche Midi, diventato un successo. La zone in francese è quel mondo poco raccomandabile popolato di trafficanti e piccola delinquenza, sporcizia e vita di strada. Mentre l'Ena è l'École nationale d'administration, fucina dell'élite di Francia, frequentata dagli Chirac, dagli Attali, dai Minc. Anne ha conosciuto entrambi, zone ed Ena. Ha vissuto da barbona per quasi tre anni (all'inizio ne aveva appena diciassette), nelle strade di Lione, sua città natale. «Andavo a chiedere i soldi, apposta, all'entrata della banca dove mio padre era un dirigen-te». I ventisette mesi di corso dell'Ena, accessibili dopo una selezione spietata, li ha iniziati a 43 anni, la maggiore del gruppo.
In mezzo, un arduo cammino di redenzione. In strada ci finì con il suo grande amore dell'epoca, nove anni più di lei, Pierre (il nome è inventato, ma il suo ricordo reale, vi-vo). Tutti e due si esprimevano con il gergo rivoluzionario di certi anni Settanta, nella testa sogni strampalati. Per il resto, un'esistenza trascinata fra i marciapiedi e le case occupate di Lione. Tanto alcool per lui, tanta droga per entrambi. Quando Anne restò incinta la prima volta, i due decisero di installarsi in un appartamentino a Parigi, pagato dai genitori di Anne, che non hanno mai dimenticato questa ribelle figlia unica. «Quel periodo è stato più duro della strada. Lì vivevo alla giornata: non avevo obblighi, né bol-lette da pagare». Ora, invece, bisognava essere "normali". Con pochi soldi, una seconda figlia, Pierre ostaggio dell'alcool, strani personaggi della zone fissi in casa. Solo nel 1987 Anne trova il coraggio di lasciare il suo uomo e di ricominciare davvero.
Passa la maturità, si laurea. Vive di lavoretti e di striminziti contributi sociali, con le due bimbe a carico. In seguito fa la giornalista free-lance, poi in alcune riviste. Resta disoccupata, ma vince il concorso nazionale per diventare professoressa di Lettere. Chiede di andare a insegnare in uno dei quartieri a rischio di Parigi. Ed è come dipenden-te dello Stato che tenta il concorso dell'Ena. In pochi ci riescono, quasi tutti studenti freschi di qualche grande école, lei ce la fa. Oggi racconta questo percorso nel suo appar-tamentino, sempre lo stesso, in un angolo del decimo arrondissement: stanze colme di libri, di dischi in vinile dalle copertine consumate, di foto (anche dei due nipoti, nati nel maggio scorso), di maschere africane. Anne è di una sincerità disarmante. Insiste sulla felicità che ha provato nella strada, «il senso di libertà». Leggeva libri rubati e ogni giorno Le Monde, acquistato con i soldi dell'elemosina, sempre generosa per quella biondina dai capelli fini e dagli occhi azzurri, troppo grandi su quel corpo minuto. Al segui-to un cane, l'inseparabile Cocaina. Ma un'attenta lettura del libro fa riemergere pure ricordi di malattie, Natali tristissimi, squallide serate a farsi di etere. Scampoli d'inferno.
Alla fine, comunque, qualcosa resta difficile da capire nella sua vicenda: come ha potuto una brillante studentessa del liceo Du Parc di Lione, uno dei migliori del paese, scivolare così giovane nella zone? Si dirà, la solita storia della figlia testamatta di una famiglia borghese. La spiegazione non è così semplice. I suoi genitori si erano cono-sciuti in Algeria, durante gli ultimi anni della colonizzazione. Il padre, Marc Joubert, che aveva fatto la Resistenza, sostenne l'indipendenza del Paese nordafricano addirittura con scioperi della fame. Rientrato in Francia fece carriera in banca, ma lavorava anche come volontario in associazioni a difesa dei poveri. Insomma, una famiglia borghese un po' particolare. «Vivevamo in un quartiere di persone agiate, ma accanto a edifici vecchi e insalubri, abitati perlopiù da immigrati algerini. Io andavo sempre lì. Ero un ma-schiaccio. Adoravo il calcio. I miei amici avevano solo scatole di latta avvolte in un panno. Io, invece, portavo un pallone di cuoio, ma a patto che facessero giocare una bam-bina come me. A un certo punto mi dissi che dovevo dare più di un pallone. Volevo cambiare il mondo». A dodici anni lesse Il Capitale di Marx, a quattordici si iscrisse alla Gioventù comunista. Partecipò a qualche blitz, tipo imbrattare in una notte con gli spray la metropolitana di Lione appena inaugurata. Ma capì ben presto di essere nata in ri-tardo. Che il Sessantotto era passato da tempo. Che fare la rivoluzione non era possibile. Forse solo una tutta personale. «Cominciai a frequentare la gente della strada. Ri-tenevo che fosse più interessante dei miei compagni di scuola e dei miei genitori».
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