Vicino alla capitale della Liberia, Monrovia, tra le rovine delle ville in riva al mare, vivono circa duecento giovani. Una comunità improvvisata di profughi che si fa chiamare "Tortoise". Fuggiti dalle zone dei combattimenti e dalle violenze dei bambini soldato, sono senza casa, spesso senza famiglia. Dormono nelle stanze un tempo usate dai servizi segreti dell'ex presidente Taylor per torturare i ribelli. Stefano De Luigi ha fotografato per «Ventiquattro» questi "figli della guerra"
Da quando abbiamo costruito la nostra chiesa, qui nella comunità, la domenica comincia a piacermi. Durante la settimana, punto la sveglia. Mi alzo sempre alla stessa ora: 6 di mattina. Vado al pozzo, prendo l'acqua, torno a casa. Mi lavo, ascolto la radio e impazzisco per le notizie della Bbc. Poi esco a cercare lavoro. Oggi, invece, lascio che sia il rumore del mare a svegliarmi. Le onde si rovesciano sulla spiaggia. Alte, rumorose, violente. Perché vivo davanti al mare, davanti all'Oceano Atlantico. Lo guardo e la sua acqua arriva fino a me, a bagnarmi i piedi. Quando si alza la marea, nel pomeriggio, quasi entra in casa. Un giorno arriverà, distruggerà quel che rimane. Io non ho sempre abitato qui. Sono cresciuta nella contea di Nimba, nell'interno. L'unico mare, per anni, è stato il piccolo fiume.
E quest'acqua infinita, a volte, mi fa paura.
Oggi è il giorno del Signore, ma ieri è stata una giornata come un'altra. Nata male, finita male. Quindi non posso fare colazione. Non ho niente da mangiare. Allora bevo un bicchiere d'acqua di fonte. Poi prendo il grande pneumatico di camion e lo trascino sino al limite estremo del nostro giardino. L'ho trovato tempo fa, sul ciglio della strada. Chissà chi l'aveva lasciato lì. Da allora è la mia poltrona. Mi ci siedo dentro. Sprofondo.
E contemplo il silenzio del luogo in cui vivo, la Tortoise community.
Alzo gli occhi. Il tempo è uno schifo: nuvole basse e cariche arrivano da lontano, assediano Monrovia. Il nero sopra di me è come un tetto. Anzi, ha lo stesso colore del soffitto della mia stanza. Questa però è un'altra storia: la storia delle bombe, o forse dei missili tirati dalle navi, non so. È successo durante la guerra, qualche anno fa. Questo posto in cui vivo, qui sulla spiaggia, allora era il quartiere dei ricchi, si chiamava Congo town. Era un'area residenziale, esclusiva. Poi sono arrivati i combattimenti. Bombardavano dal mare, con le navi da guerra e i proprietari sono andati via. Tornati negli Stati Uniti, da dove erano venuti. Nel quartiere hanno continuato a darsi battaglia per tutti i quindici anni di guerra civile. Addirittura, negli ultimi tempi, il presidente Charles Taylor aveva sistemato in queste ville i suoi servizi segreti. "A-Team", si facevano chiamare. Come il telefilm, sì, e il capo era il figlio del presidente. Queste stanze semidistrutte, in cui oggi noi viviamo, erano camere per le torture. Io non so che pensare: era un'altra comunità, aveva anche un altro nome. Watanga. C'erano i soldati e c'era la guerra, nessuno si avventurava da queste parti. Se venivi qui, eri un uomo morto. Io non ho visto nulla. Mi dispiace, ma sono stati anni duri. Per tutti. Il mio cuore non soffre, il mio cuore guarda avanti. Oggi è diverso. Taylor è in galera. Anche suo figlio Chuckie è in prigione negli Usa. L'ho sentito alla radio, una mattina di qualche settimana fa.
E noi dobbiamo sopravvivere.
Per farcela, abbiamo deciso di stare insieme. Così abbiamo formato questa comunità di circa duecento persone. L'incontro è avvenuto per caso e qui alla Tortoise siamo arrivati alla spicciolata, a partire dal 2004. Siamo tutti giovani, molto giovani: io ho 22 anni e sono tra le più grandi. Siamo i figli dei combattimenti. Siamo i sopravvissuti ai combattimenti. Abitiamo queste dieci ville sventrate. Stiamo ai piani terra, nei sottoscala. Abbiamo messo del legno alle finestre, sistemato le porte. Se non hai di meglio dove andare, sembra quasi normale. Alla fine ti ci abitui a fare gruppo. Anche se io sono solitaria. Spesso, mi incammino lungo la spiaggia. Vorrei percorrerla tutta. Cammino, respiro. E penso: sogno la mia vita, una casa normale. Con un marito e mia figlia. «Devi lottare», mi ripeto, mentre guardo le grandi navi che vanno verso l'orizzonte.
E vorrei vincere la paura. E prenderne una.
Intanto vivo qui. Chi sia arrivato per primo e perché, non lo so. Posso raccontare come ci sono arrivata io, Felicia Saye. Scappata nel 2001 da Sawe, il villaggio in cui la mia famiglia ha sempre vissuto. I combattimenti si avvicinavano e mi terrorizzavano. Soprattutto, temevo i bambini soldato, ragazzini della mia età, gonfi d'odio e di ignoranza, lanciati contro il mondo, intossicati dalla brown-brown, il miscuglio fatale di cocaina e polvere da sparo.
A quei tempi Monrovia era più tranquilla. Me lo raccontava Gladys, mia sorella maggiore. L'ho raggiunta e ho vissuto con lei fin quando non sono rimasta incinta. Poi il mio ragazzo è scappato e Gladys mi ha cacciato: «Se sai fare un figlio, sai anche crescerlo». Così mi sono rimessa in cammino. Era appena finita la guerra. Ho partorito al villaggio e la bambina è rimasta con mia madre. Io sono tornata in città. Cercavo casa e le mie amiche avevano sentito parlare di questo quartiere.