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Roberto Cavalli, eccessivo naturale

di Renata Molho

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È tormentato e visionario. Adora Häagen-Dazs, ha l'ossessione del tempo, quello che passa e quel senso di fretta che corrode tutti. Roberto Cavalli fuma il sigaro, che ben si addice alla sua faccia scolpita, ma anche delicate e sottili sigarette dal filtro bianco. È sanguigno con un retrogusto di fragilità, ha una risata corposa, la voce baritonale e un vissuto denso. Si pone molti interrogativi ed è un esistenzialista inconsapevole, che si nasconde dietro al personaggio mondano che tutti vogliono conoscere.
La conversazione assume un andamento da trekking: ti conduce su altipiani verdeggianti e riposanti poi, improvvisamente, prende un sentiero scosceso che porta a valli profonde. Ciò che affascina, anche oggi che la sua moda sembra vivere una nuova stagione nella quale i toni sono addolciti e la spettacolarità sembra passare attraverso codici più moderati di un tempo, è la totale onestà delle intenzioni. Cavalli, felliniano e incontenibile come un fiume in piena, ha esaltato il corpo fino a modificarne l'anatomia, tradotto i colori e i decori della giungla in linguaggio comune, trasformando il maculato in strumento di seduzione quotidiano: «Mi ispiro a tutto ciò che è natura - ci dice - , come si fa a non prendere spunto da un artista come Dio?».
È nato il 15 novembre 1940, è toscano, caustico e reattivo e, dietro a un atteggiamento apparentemente distratto, scruta l'interlocutore, sospettoso e guardingo come un felino. Di fronte a un caffè, si racconta con generosità. «Per me la moda è un lavoro, ma io ho vissuto per l'arte: una specie di scommessa con me stesso». Il nonno, Giuseppe Rossi, era un macchiaiolo, le sue opere sono esposte agli Uffizi di Firenze; il babbo lavorava come geometra in una miniera nel Valdarno e di notte studiava. «Si laureò in Economia, ma non l'ho mai conosciuto davvero perché avevo quattro anni quando morì. Noi si abitava a Castelnuovo dei Sabbioni, un giorno una pattuglia di SS fece un rastrellamento e tra gli altri c'era anche mio padre: li misero tutti al muro e poi li bruciarono. Furono uccisi in tanti, anche il prete del paese. Mia madre, grande donna, tornò a Firenze da mio nonno e mise su un piccolo negozio di carbone».
Cavalli ha un ricordo vivido dei due chilometri percorsi a piedi e da solo per raggiungere la scuola il primo giorno. «Non parlavo. Cominciai a parlare quando avevo sedici, diciassette anni. Ero balbuziente. Un po' per questo e un po' perché non avevo voglia di studiare, non posso certo dire di essere stato un buon allievo». Messo alle strette dalla madre, Cavalli si iscrisse alla scuola d'arte di Firenze. Era in classe con Aldo Fallai e con Gabriella Pescucci, costumista premio Oscar nel ‘94 per L'eta dell'innocenza. A pochi mesi dall'esame rinunciò al diploma, ma, a riprova del fatto che il talento vale più del famoso pezzo di carta, unico designer al mondo, ha tenuto di recente una conferenza alla Oxford University. «È stata una delle giornate più emozionanti della mia vita, l'ho dedicata a mia madre, morta nel '94».
La sua è una storia di successo tardivo, il che lo pone in una prospettiva differente da quella dei giovani stilisti di oggi, dalle carriere spesso fulminee. Tutto iniziò quando un industriale di Prato gli chiese di aiutarlo a dipingere su dei tessuti. «La notte, a casa sua, si lavorava sul tavolo da ping-pong». Una prima moglie, due figli e, ancora giovanissimo, incominciò a dipingere magliette, pullover. Arrivarono i primi ordini, lavorava venti ore al giorno. Era la fine degli anni Cinquanta e dobbiamo immaginarci Cavalli, alla guida della sua Cinquecento, che andava da Firenze a Como una volta alla settimana o da Firenze a Bologna sulla Futa. Cominciò a fare i primi cliché e a stampare da solo «in un garagetto che avevo preso in affitto. La pelle era un materiale duro, ma pensai di utilizzare quella finissima da guanteria, che compravo in Francia, e di stamparla. Da Hermès, a cui fornivo già della maglieria, furono entusiasti, mi invitarono a Parigi, volevano l'esclusiva». Ma, indipendente e istintivo, decise che avrebbe fatto lo stilista, ispirato principalmente dalla sua nota passione per le donne. Disegnò una piccola collezione e la presentò a Parigi, a Porte de Versailles. I giornalisti apprezzarono, ma non vendette nulla.
Il primo grande successo arrivò dopo un paio d'anni, tra il 1971 e il '72, quando comprò dei jeans usati, li tagliò a pezzi e li riassemblò con la sua pelle stampata. Mostrati a Firenze, nella Sala Bianca di Pitti, riscossero grandi consensi. Ma l'andamento della sua carriera seguirà un movimento ondivago, con alti e bassi. Tanto da rischiare la chiusura, scongiurata dall'entusiasmo di Eva, che ha sposato nel 1980 e con la quale ha avuto tre figli. Ed ecco arrivare un'altra svolta: Cavalli ha l'idea di utilizzare la Lycra per elasticizzare il jeans bianco che stampa a mano e invecchia con la carta vetrata. Il motivo ornamentale è il disegno di un serpente, che diventerà un po' il suo simbolo, anche se non è il suo animale preferito. Improvvisamente inizia l'ascesa che lo ha condotto fin qui. «L'aiuto maggiore me l'ha dato il minimalismo. Perché nel '95 c'era quella moda così grigia e triste, e quando presentai la mia, colorata e sexy, fu accolta con gioia».
Il resto è storia: una carriera esplosiva, sperimentazione, audacia, comunicazione e quella capacità di mischiare significati e messaggi. Di piegare la materia e trasformarla in suggestioni erotiche ammiccanti. Cavalli non disegna: plasma e crea. Dopo tanti anni si diverte ancora «a progettare un traforato, una stampa con dei colori che nessuno ha mai fatto». Oggi ha responsabilità ben diverse di un tempo, sente di dover rispondere all'industria e rimpiange un po' la freschezza di quando affrontava la sfilata come se fosse un vernissage, ma, pur nella consapevolezza di vivere un tempo diverso, personale e sociale, ha il piglio irriducibile e indomito degli esordi. «Ho sofferto tanto, ero invidioso dei miei amici, tutti bravissimi a scuola, i primi amori... io ero sempre l'ultimo in tutto. È stata una specie di rivalsa che mi sono voluto prendere nella vita, ma tutto sommato credo che Dio mi abbia voluto bene».

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