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La Venaria agli antichi lustri

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La Venaria agli antichi lustri

di Ferdinando Mazzocca
Quel libro magnifico, come il suo argomento, che è Le Metamorfosi del Barocco di Andreina Griseri restituiva al castello della Venaria reale un posto di prima grandezza tra le maggiori regge europee, collocando l'immenso complesso voluto dai Savoia nella campagna torinese entro la dimensione del rimpianto di uno splendore perduto. «Ora - scriveva accorata nel 1967 - è una rovina immane; come un animale ferito, irrimediabilmente. I restauri parziali hanno fermato all'interno la caduta degli stucchi nella Galleria del Settecento ma resta un'incognita la forte della chiesa di Juvarra, tra le più importanti soluzioni di tutto il Settecento. Quanto alla parte del Seicento, salvo il salone centrale, è in completo abbandono. A tratti, dai muri superstiti in attesa di ripristino, il classicismo del Castellamonte e del Garove (...) ancora emerge come una gran voce barocca...».
Il recupero della Venaria, che sembrava dato in degrado non più realizzabile, ora è cosa fatta e la riapertura, dopo un poderoso intervento di restauro iniziato nel 1996, restituisce al sistema delle regge sabaude forse la sua più fulgida gemma, quella che nei trionfanti comunicati stampa odierni viene, non a torto, definita la Versaille italiana. Con la differenza che la Versaille vera, diventata ai tempi della monarchia di luglio il grandioso Museo della storia di Francia, non aveva mai perso il suo splendore, come il suo valore di simbolo dell'identità e della grandeur nazionali, mentre le Versaille nostrane, pur non inferiori al loro modello, cioè la reggia di Caserta e la Venaria ne hanno passate delle belle. Ma adesso grazie alla volontà politica e alla sensibilità che con i loro studi decennali gli storici dell'arte (penso per tutti alla memorabile mostra di Gianni Romano e Michela Di Macco su Diana trionfatrice) e i funzionari della sovraintendenza hanno creato, il miracolo si è compiuto, e in tempi davvero ragionevoli, insoliti al Bel Paese la "gran voce barocca" della Venaria risuona di nuovo potente. E dove prima regnavano i calcinacci, i pavimenti divelti e gli alberi crescevano sui tetti dissestati, tra le macerie dovute a due secoli di abbandono, sono fioriti cantieri per il recupero, costato complessivamente 200 milioni di euro. Qui, sotto la guida di Francesco Pernice e Alberto Vanelli, un esercito di tecnici, artigiani, muratori ha ripristinato, eliminando tutte le aggiunte create quando parte della reggia venne adibita a caserma, gli spazi originali e il fascino scenografico della vasta sala.
Rispetto a questo restauro concluso a tempi di record c'erano voluti invece molti anni e l'opera di tre generazioni di architetti per portare a termine la grandiosa impresa voluta da Carlo Emauele II. Il progetto e la prima fase della costruzione si devono ad Amedeo di Castellamonte, che aprì il gigantesco cantiere nel 1658, in un luogo fuori della città dove «era una piccola villa, e mal composta, fabbricata con strade ritorte, con case basse, e rusticali», creando un insieme improntato a uno sfarzo e a una magnificenza davvero regali, facendone dunque il simbolo della potenza di una dinastia che era entrata nel giro finalmente delle grandi monarchie assolute europee. Il Castellamonte ne fece il capolavoro di un gusto classicista che nel conseguimento barocco degli specchi in scenografici appare caratterizzato da una straordinaria forza oratoria. Su questa strada la sua opera verrà continuata, dopo l'incendio del 1693, da Michelangelo Garove, un seguace di Guarini, e infine tra il 1719 e il 1724, da Filippo Juvarra, cui si devono i bellissimi spazi delle scuderie e della chiesa di Sant'Uberto, anch'essa restituita all'antico splendore. L'intervento di quest'ultimo, geniale come sempre, accentuava l'inserimento del corpo della reggia e degli edifici di servizio in un ambiente naturale straordinario formato da una serie di giardini, in gran parte recuperati, e dallo sconfinato parco della Mandria.
Il restauro non ha riguardato solo le parti architettoniche, i pavimenti (in parte recuperati, altrimenti rifatti), ma anche i magnifici stucchi e gli affreschi che, in uno straordinario percorso iconografico tra le rappresentazioni di temi venatori e mitologici, caratterizzavano l'insieme. Finiti arrotolati nei depositi di Palazzo Madama, sono stati recuperati e restaurati anche i magnifici dipinti che componevano il ciclo delle scene di caccia eseguiti dal pittore di Anversa, Jean Miel, ingaggiato appositamente da Roma. Nella Grande Galleria della Venaria i trofei in stucco e le storie di Diana, la dea della caccia, dipinte da Miel invadono la volta, («capricciosa per straordinaria struttura»), come affermò il Castellamonte fiero dello straordinario effetto di meraviglia raggiunto, secondo le suggestioni del letterato e storiografo della casa reale, Emanuele Tesauro che dettò i motti a illustrazione degli affreschi, dato che «sotto allegorici documenti de' fatti favolosi di questa Dea delle Cacce c'insegna con motti, e inscrittioni in lingua italiana, il vivere humano e civile».

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