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Le virtù del virtuale

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In Primo Piano

Le virtù del virtuale

di Chiara Somajni
Tre dicembre 1984. Un membro degli Yesmen si fa intervistare dalla Bbc sotto le mentite spoglie di un rappresentante della Dow Chemical, e dichiara che la società si è assunta piena responsabilità del disastro di Bhopal di vent'anni prima (notizia smentita nelle ore seguenti). Lo scorso giugno un gruppo di artisti si infila nella tivù ceca introducendo nel flusso delle immagini un ameno paesaggio con fungo atomico. Qualche giorno fa viene diffuso su YouTube un frammento di telegiornale, nel quale si mostra il crollo della Sagrada Familia, dovuto alle vibrazioni del treno ad alta velocità che corre sotto la cattedrale. Tutto fasullo: il tunnel ancora non c'è, sono però stati autorizzati gli appalti per la costruzione di una linea veloce Barcellona-Madrid che tale tunnel prevede.
Sono alcuni casi recenti di infiltrazione mediatica di gruppi di persone che operano in un territorio di confine tra attivismo, comunicazione di massa, pratiche artistiche. Interventi che – sia pure con abilità ed efficacia diverse – vanno a interferire con il sistema dell'informazione, sfruttando l'immediatezza delle immagini, una molteplicità di canali e la risonanza internazionale data dalla Rete.
Interferenze rese possibili dalla penetrazione su vasta scala dei nuovi media (anche gli Yesmen è in primis alla Rete che si appoggiano), rispetto ai quali ancora oggi, nonostante la giostra di telefonini e ipod, possiamo dirci analfabeti. Questo vale in particolar modo per un particolare ambito nel quale con i "nuovi media" si sperimenta: l'arte, o meglio quel suo segmento che, misurandosi con la tecnologia e (spesso) con istanze sociali, dal mondo dell'arte ufficiale stenta ancor oggi a essere riconosciuto. In Italia soprattutto, dove manca una continuità espositiva, critica, storica e le rare mostre, in carenza di contesto, rischiano di trasformarsi in fenomeni da baraccone. Inutile dire che le eccezioni ci sono, ma a saltare all'occhio è lo scarto tra la rilevanza già oggi in atto delle immagini digitali e dei nuovi strumenti di comunicazione nella nostra quotidianità e la scarsa attenzione che i luoghi dell'elaborazione pubblica della cultura (dai musei all'editoria) dedicano al loro impatto cognitivo e sociale.
Siamo in buona compagnia: tant'è che tale denuncia viene fatta oggi anche là dove sono fioriti in questi anni l'impegno di ricerca, confronto critico e divulgazione. In Austria, ad esempio, dove è con questo spirito che Oliver Grau, docente di Scienza dell'immagine alla Donau-Universität di Krems, già autore di un libro sull'Arte Virtuale (Mit Press, 2003), pubblica ora Mediaarthistories, una raccolta di testi scaturita dalla conferenza di Banff «Refresh!» del 2005 e volti a promuovere gli studi sulla cosiddetta new media art. Per definirne le basi teoriche e saldare finalmente il legame con gli studi storico-artistici "tradizionali", rintracciando continuità (dai futuristi, all'arte programmata, a Fluxus) e specificità.
Contestualmente arriva in libreria un'altra "storia", scritta da uno dei veterani tra gli osservatori di questa disciplina: Frank Popper (nato a Praga nel 1918, residente a Parigi), il quale dopo i volumi sulle Origini e lo sviluppo dell'arte cinetica, su Arte, azione e partecipazione e sull'Arte nell'era elettronica, ha dato alle stampe From Technological to Virtual Art. Popper rilegge gli ultimi vent'anni privilegiando coloro che si sono appropriati della tecnologia "umanizzandola" per perseguire finalità al contempo estetiche, etiche e sociali, per realizzare opere "in potenza" (virtuali). Propone una rassegna di figure tanto originale quanto parziale. E tale risulta anche il suo approccio, lacuna che però neppure il libro curato da Grau, ricco di spunti e di tagli prospettici incisivi sulla neo-disciplina, può colmare. Non siamo che agli inizi.
L'odierno «passaggio dalla cultura degli oggetti e della stabilità alla cultura del flusso e dell'instabilità», per riprendere un passo da Popper, genera una produzione artistica diffusa, pervasiva, poliforme. I cui tratti specifici sono l'interattività, la processualità, il protagonismo estetico e linguistico della "macchina" (vedi l'intervento di Andreas Brockmann). Si reinventano format canonici (scrittura, pittura, scultura, fotografia, cinema, performance...) e si sfondano i limiti dello spazio convenzionalmente assegnato alla fruizione artistica, per intrecciarsi con l'intrattenimento (cfr Machiki Kusahara), il design, il mondo dell'informazione, la scienza (Felice Frankel). Quanto di più adatto per mettere alla prova (come sottolinea Barbara Maria Stafford nel suo saggio) gli studi sulla capacità umana di costruirsi delle narrazioni coerenti, dei fili di senso, a partire da tessere eterogenee di esperienze e conoscenze: capacità tanto più importante in un mondo sempre più complesso, fluido, frammentato.
1 «Mediaarthistories», a cura di Oliver Grau, Mit Press, Cambridge, pagg. 476, $ 40,00;
1 Frank Popper, «From Technological to Virtual Art», Mit Press, Cambridge, pagg. 460, $ 45,00.

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