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Sugimoto nel museo delle cere

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In Primo Piano

Sugimoto nel museo delle cere

di Angela Vettese
Il mare. Per molti dei suoi spettatori Hiroshi Sugimoto (Tokyo 1948) è quello che lo fotografa in bianco e nero con ossessione. Le immagini si differenziano per un'increspatura o uno sfumare diverso con l'orizzonte. Benché viva in America dal 1974, è rimasto un orientale analitico. Dopo molte antologiche al l'estero è arrivata una sua mostra completa anche in Italia, nel vasto spazio di Villa Manin a Passariano, dove l'impianto classico dell'edificio gli ha suggerito un allestimento basato sul cavalletto.
Ci sono i mari, appunto (1980- 2003) che ci aiutano a comprendere come per il fotografo non esistano veri confini tra gli elementi ma un continuum tra il tutto: visione, materia, spazio. E ci dicono che c'è qualcosa che l'uomo ha potuto vedere identico da sempre, appunto quella linea d'orizzonte.
La serie dei teatri (1975-2001) si fonda su lunghissimi tempi di esposizione che rendono bianco lo schermo: non si fotografa ciò che accade sul palco ma il suo susseguirsi; ciò che rimane è un bianco abbagliante e vuoto ma che sappiamo essere stato pieno di gesti e voci.
La serie più impressionante e imprevista è forse quella delle statue di cera fotografate nei musei di Madame Tussaud's a Londra e ad Amsterdam. Se la presenza di Enrico VIII, Napoleone e di altri personaggi storici non fa problema – è chiaro che si tratta di immagini tratte da copie e anzi da quadri di Hans Holbein, Anthony Van Dyck, Jacques-Louis David – il viso di Papa Giovanni Paolo II sembra un ritratto dal vivo, anche se ride troppo. Con Lady Diana l'illusione è totale. «Per quanto finto sia il soggetto», ha dichiarato l'artista, «una volta fotografato, è come se fosse vero».
È come dire che la realtà non è mai completamente se stessa perché il tempo le passa sopra qualcosa che potremmo immaginare come un cellophane.
Le ultime serie si avvicinano alla tecnica e riprendono macchine di metallo dai più svariati utilizzi (2004-2006), dal cui rigore l'artista è totalmente affascinato: è l'effetto Brancusi, che prende tanti di coloro che giocano con la purezza delle forme. Infine Sugimoto si guarda alle spalle e trova William Henry Fox Talbot, il fotografo degli albori che non riuscì a completare il processo di passaggio al positivo del negativo. Il giapponese gli presta questo servigio, visto che il tempo non esiste (2006). Nel frattempo, come in un ciclo che si schiude a un'altra spira, incomincia a fotografare i fenomeni della natura in movimento (Lightning Fields, 2006-7, in realtà lampi creati in studio). Da un mare per sempre, per tutti, oltre la storia, Sugimoto è arrivato a uno strappo di luce nel momento, nel caso, per lui solo.
Il risultato è lo stesso: ci pensa il mezzo fotografico a eternarli e a comunicarli.
1«Hiroshi Sugimoto», Passariano, Villa Manin, fino al 30 settembre; www.villamanincontemporanea.it

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