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Brera in un «campus»? No grazie

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Brera in un «campus»? No grazie

di Philippe Daverio
Pochi luoghi intrecciano storia e identità quanto lo fanno lo storico Palazzo di Brera e il sistema museale e didattico che lo contiene. Milano è città di scarsa memoria e quindi tende a dimenticarselo. Le vicissitudini di Brera vanno però ben oltre la curiosità.
Nasce come Convento degli Umiliati e di questi segue la sorte, poiché tradendo loro il nome che portavano diventarono in breve ricchissimi con la produzione dei panni di lana. Quando in città, dopo il Concilio di Trento, torna a fare il vescovo e il cardinale Carlo Borromeo nel 1565, uno di loro gli spara un colpo di archibugio per una sorta di difesa sindacale: l'apprendista santo, nello spirito più severo tridentino, aveva fatto chiudere i teatri e i frati non vendevano più i costumi. Brera sin dall'inizio è scenografica. Ovviamente il cardinale li butta fuori e li sostituisce con un brand nuovissimo, fedele e giustamente ispanizzante, i gesuiti, i quali in pochissimo tempo diventano potenti, ideologi di rigore e intellettuali barocchi. Per questo motivo viene chiamato nel 1628 il Richini a fare dell'edificio il più bel palazzo di Milano. I gesuiti, si sa, sono complicati e creativi e conteranno fra le loro fila padri di eccellente cultura, fra i quali quel Boscovich croato, seguace delle teorie di Newton, insigne matematico che fece i calcoli per consentire il collocamento della Madonnina in cima al Duomo, e poi se ne andò a piazzare in Brera l'Osservatorio astronomico. Perché Brera nel Settecento era già luogo si scienza e di studio.
Poi se ne andarono anche i gesuiti, anzi furono cacciati per colpi ben più gravi di quello dell'archibugio sparati agli equilibri europei delle Corti. Era il 1772, ordine di Maria Teresa, il cui governo affida al plenipotenziario conte Firmian il compito di trasformare Brera in centro stabile di studi. Diventa Regio Ginnasio e vi si trasferiscono i più brillanti insegnati della città fra i quali Giuseppe Parini con la cattedra di Eloquenza che già teneva alla Scuola Palatina sotto un titolo estremamente utile a capire il futuro dell'istituzione: «Principi generali di belle lettere applicate alle belle arti». Il gioco della sinestesia era inventato. L'edificio fu migliorato dall'architetto ufficiale dell'imperialregio governo, Piermarini.
Napoleone il razziatore pose la sua ideologia imperialgiacobina su una realtà già esistente e fece di Brera, con Andrea Appiani, l'unico modello italiano (voleva egli Milano capitale) di museo omnicomprensivo stile Louvre con annessa didattica. Ecco perché a Brera confluirono i Tintoretto e i Gentile, Bellini, veneziani come la Sacra Conversazione di Piero, tutte opere utili a imparare sia la pittura che la prospettiva architettonica. Ecco perché Brera divenne con Bossi (quello che lasciò il Cristo morto di Mantegna) l'istituzione maggiore della creatività nord italiana del XIX secolo. I guai iniziarono agli albori del XX: gli oggetti (antichi, egizi e medievali) se ne andarono al Castello appena acquistato e poi gli studenti d'architettura al Politecnico. Brera rimase Pinacoteca e Accademia. Con pochi iscritti quando l'arte italiana del Novecento contava molto e oggi con moltissimi iscritti da quando i commercianti newyorchesi hanno decretato nella Biennale di Venezia che l'arte degli Italiani non esiste più: si vede che i giovani artisti non danno retta ai dettami internazionali. Sono e continueranno a essere la prima risorsa della nostra autonomia creativa. E vanno guardati con l'attenzione di chi crede che l'avvenire sia in loro. Si pensava di trasferirli in massa alla Bovisa, dove già studiano una parte degli architetti del Politecnico e gli studenti della facoltà di Design. L'operazione servirebbe a liberare il Palazzo di Brera e ad aumentare la sua disponibilità per i visitatori. Sarebbe utile altrettanto a dare aria alla Biblioteca fenomenale che fu voluta da Maria Teresa d'Austria laddove i gesuiti tenevano la sartoria (torna sempre la stoffa). Solo che la biblioteca non soffre tanto per via degli studenti ma piuttosto per il fatto che essendo uno dei depositi nazionali si trova pure a dovere smaltire i "depositi" che per legge ogni nuova edizione vi deve lasciare. Sarebbe infine la liberazione dagli studentacci una opportunità per ridare vita all'orto botanico e forse all'osservatorio. Si raggiungerebbe un risultato ragguardevole. Brera diventerebbe il raccoglitore degli strumenti didattici voluti nei secoli dai nostri predecessori, la pinacoteca appunto assieme alla gipsoteca con la biblioteca, l'osservatorio e la collezione botanica mentre gli studenti, i nostri successori cioè, potrebbero assorbire la didattica e provare la sperimentazione in un futuro bel campus bovisasco.
Curiosità italica. Da noi il campus non è mai esistito poiché dagli anni lontani nei quali a Bologna fu inventata la prima università del mondo fu deciso che la città medesima ne sarebbe stata il campus, così poi a Padova o a Siena. Un giorno potremmo anche noi diventare inglesi, ma facciamo prima a imparare la guida a sinistra. I miei studenti di Design stanno benissimo alla Bovisa, le aule e lo spazio sono fantastici se paragonati a quelli dove insegno a Palermo, e loro hanno i riferimenti nel mondo della documentazione, spesso digitale. Gli studenti dell'Accademia separati dai materiali mi sembrerebbero frustrati. Quindi plaudo alla proposta di lasciarli nel quartiere loro storico aumentando gli spazi espositivi di Brera, finendo il lavoro trentennale del vicino Palazzo Citterio e dando vita a un ridesign del nostro rispettato mondo militare che potrebbe lasciare Palazzo Cusani lì di fronte a un destino più aulico.

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